Il festival è agli sgoccioli e le previsioni impazzano. E' il toto-scommesse sulla Palma d'oro. A compiere la scelte per il Palmarès sarà una giuria, presieduta quest'anno dai fratelli Joel e Ethan Coen, quanto mai eterogenea: ci sono il regista canadese Xavier Dolan e quello messicano Guillermo Del Toro; l'attrice francese Sophie Marceau, quella americana Sienna Miller e la spagnola Rossy De Palma; la star hollywoodiana Jack Gyllenhaal e la cantante maliana Rokia Traoré. Assolutamente impossibile strappare indiscrezioni: per tutelare la segretezza fino al galà della premiazione, domenica sera, il direttore del festival, Thiérry Fremaux, riunirà i giurati in un luogo segreto nel quartiere della Californie, entroterra di Cannes, lontano dalla Croisette.
Cominciamo comunque a tirare una riga sopra i titoli che hanno deluso. Al film The sea of trees di Gus Van Sant (bocciatura della prima settimana) possiamo aggiungere due film francesi: Mon roi di Maiwenn (storia di un amore nato male con lei, succube di lui, che prende coscienza durante la lunga convalescenza dopo un incidente sugli sci) e Marguerite & Julien di Valérie Donzelli (presunto scandalo per l'amore incestuoso tra fratello e sorella, spostato dall'ambientazione Seicentesca in un'epoca indefinita, con tanto d'incursione di elicotteri, così da virare in un ridicolo pasticcio). Thriller ben costruito ma che non va oltre il cinema di genere Sicario, del canadese Denis Villeneuve, di cui meritano più che altro di essere segnalati gli attori: Emily Blunt, Benicio Del Toro e Josh Brolin. Discorso analogo per Valley of love di Guillaume Nicloux: la storia (due ex coniugi si ritrovano nella Valle della morte, in California, dove sono stati chiamati dal figlio fotografo, che nel frattempo si è suicidato) merita di essere segnalata per le interpretazioni di Isabelle Huppert e Gérard Depardieu. Idem per Chronic del messicano Michel Franco: la vicenda dell'infermiere professionale, che cura a domicilio malati terminali facendosi però prendere troppo dal sentimento della compassione al punto da arrivare all'eutanasia, è così agra e ambigua da risultare oscura e disturbante se non fosse per il bravo protagonista Tim Roth.
Due invece sono i titoli che hanno diviso critici e addetti ai lavori. Carol dell'americano Todd Haynes avrebbe tutto per piacere: scenografie e costumi sontuosi, in grado di rievocare atmosfere dell'America anni Cinquanta e una storia che scotta (la relazione omosessuale tra una splendida alto borghese e una commessa dei grandi magazzini). Il guaio è che il pathos scompare dietro una perfezione stilistica patinata, ossessiva. Chi guarda resta al di là dello specchio, senza immedesimarsi mai. Peccato per Cate Blanchett, interprete superba, alla quale andrebbe di diritto il premio come miglior attrice. Altra confezione splendida, ma povera di contenuto, quella realizzata dal maestro cinese Hou Hsiao-Hsien con The assassin. Siamo nella Cina medioevale e il killer del titolo è una splendida ragazza, sinuosa e mortale come un cobra. Il dramma sta nel fatto che la giustiziera deve far fuori il crudele governatore Tian Ji'an, che però è anche l'uomo che ama. L'esile trama è svolta dal regista con tale virtuosismo di scene, costumi e coreografie che lo spettatore è stordito, abbagliato. Ma nessuno capirebbe il senso della storia senza esser guidato. Eppure, ci sono critici che si sono spellati le mani per quella che hanno definito “la più nobile delle carneficine”. Sarà, ma noi preferiamo quelle stile fumetto di Quentin Tarantino.
A questo punto, dopo dieci giorni di proiezioni a getto continuo, per noi restano favoriti proprio i tre titoli italiani: Il racconto dei racconti, Mia madre e Youth - La giovinezza. Con una significativa inversione di classifica: dopo i 16 minuti e 4 secondi di applausi incassati alla proiezione di gala (sono stati cronometrati da una Tv francese), il film di Sorrentino balza senz'altro in pole position rispetto a quello di Moretti. Due sono le pellicole che possono dar filo da torcere ai nostri cineasti, entrambe francesi. Perché quest'anno va dato atto al cinema d'oltralpe di aver portato l'attualità sociale sugli schermi della Croisette. Lo ha fatto con Dheepan di Jacques Audiard, regista già premiato qui nel 2009 (per Un prophète che ha lanciato il sempre più bravo Tahar Rahim). Il nome del titolo è quello del protagonista, guerriero Tamil costretto a lasciare lo Sri Lanka dopo l'uccisione di familiari e compagni combattenti per mano dell'esercito governativo. Per farlo espatriare clandestinamente, gli affibbiano una moglie e una figlia posticci, così da corrispondere ai documenti rimediati. Il guaio è che i tre sono tra loro estranei e, ottenuto asilo dalla Francia, si ritrovano in una situazione non tanto diversa da quella da cui provengono: lui, custode, fa le pulizie in un condominio di periferia, rifugio di bande armate. Più la famigliola fittizia si affiata e ritrova serenità, più la situazione attorno si fa insostenibile. Finale fulminante. Perché una Tigre Tamil, che ha subito e seminato morte, può essere una belva più pericolosa di qualsiasi guappo di periferia.
Ancor più diretto e disturbante il messaggio di La loi du marché di Stéphane Brizé, con uno stupendo Vincent Lindon (il premio di miglior attore sarebbe suo se non fosse per lo straordinario Michael Caine del film di Sorrentino) nei panni di un cinquantenne che, dopo venti mesi da disoccupato, trova finalmente lavoro. Vero, ha moglie e figlio handicappato da mantenere, ma si può accettare davvero tutto in cambio di un impiego? L'interrogativo si porrà, sempre più incalzante, man mano che facendo il sorvegliante di un iper-mercato scoprirà quanta povera gente, oggi, annaspi nel bisogno. Detto così sembra niente, ma il racconto è talmente raffinato da prendere alla gola. Un film nello stile dei fratelli Dardenne (cinepresa incollata alla nuca del protagonista, quotidianità che si fa spettacolo, attori non professionisti ad eccezione di quello principale) che potrebbe davvero meritare qualsiasi premio.
Insomma, la lotta per il Palmarès dovrebbe restringersi a questi due francesi e ai tre italiani, con l'eccezione del premio per la migliore attrice a Cate Blanchett. Un duello tra cugini che è il leit-motiv del Festival di Cannes, visto che nelle precedenti 67 edizioni una dozzina sono state le Palme d'oro francesi e altrettante quelle italiane. Siamo allo spareggio. Se proprio, poi, dovesse esserci una sorpresa che sia Il figlio di Saul dell'ungherese Laszlo Nemes: ennesima elegìa sulle vittime di Auschwitz resa originale dal particolare punto di vista, quello di un internato costretto dai nazisti a ripulire i forni crematori. Fino a quando non crede di riconoscere il corpo del figlio, di cui non sapeva più nulla... Trattandosi di un'opera prima, dovrebbero almeno dargli la Caméra d'Or. Tutto chiaro. Peccato che un collega, caro amico di tante trasferte, mi abbia apostrofato dicendo che non ho mai capito niente di festival: ad avere la Palma d'oro sarà Hou Hsiao-Hsien. “Se vince il film cinese”, gli ho ribattuto, “cambio mestiere”. E lui, pronto: “Eccoti il quotidiano della Costa Azzurra, è pieno di offerte di lavoro”. La cosa mi dà pensiero.