«In poche ore ho visto due facce della stessa medaglia: una piena di speranza e l’altra di morte». Monsignor Angelo Raffaele Panzetta, vescovo di Crotone, ricorda il dolore del naufragio e spiega che proprio alla vigilia, il sabato, si stava rallegrando perché, ospite della comunità Agape, a Carfizzi, durante la sua visita pastorale in diocesi, stava cenando con una ventina di ragazzi immigrati «che imparano l’italiano, i mestieri, a valorizzare i titoli di studio che hanno. Sono passato in poche ore dalla gioia di vedere che si sono integrati, che coltivano sogni e che sono una risorsa per il nostro territorio, al dramma di vedere quei corpi nelle buste».
Avete pensato subito a un momento di preghiera?
«È stata un’esigenza che è venuta dal basso, dalle parrocchie, dentro il vissuto delle comunità che hanno ospitato direttamente il dramma. Più che una manifestazione pro o contro qualcuno ci è sembrato che un momento di preghiera fosse il modo migliore per unire e consolare la popolazione. Ed è venuto spontaneo pensare a una via Crucis perché quello è un momento di incontro profondo con Dio, ma anche perché è motivo di speranza. Per noi cristiani la croce è segno del mistero pasquale di Gesù dunque è una croce fiorita, pur nel dramma».
Con lei era presente anche l’imam di Crotone, Mustafa Achik.
«Ci siamo conosciuti all’apertura della camera ardente e abbiamo deciso di non fare due momenti di preghiera separati, ma di invocare insieme l’unico Dio che ama la vita. Il dramma è stato anche un “kairos” perché ci ha fatto conoscere e abbiamo così potuto offrire anche un momento di fraternità».
Le religioni come possono aiutare nel costruire una società più accogliente?
«Quando sono autentiche, quando sono per l’uomo, per la sua salvezza integrale hanno un grande impatto sul vissuto delle comunità e delle persone. Poiché contengono proposte di valori e danno forma alla vita, hanno un ruolo importantissimo per definire lo stile relazionale di una comunità. Sono decisive a ingenerare una postura di accoglienza, di pace, di empatia, di ascolto. Possono contribuire a creare quella che noi cristiani chiamiamo civiltà dell’amore, ma che potremo definire anche fraternità pacifica e attenta allo sviluppo umano».
La croce usata per la via crucis, fatta con il legno della barca naufragata, andrà ora in pellegrinaggio?
«Ci sono state molte richieste, ma dobbiamo valutare se è questo il momento giusto e cosa fare. Intanto è conservata nella parrocchia di Steccato di Cutro, quella dedicata a Gesù risorto. Abbiamo voluto collocarla lì dove è avvenuto il fatto drammatico per lasciare un segno e far sì che da quel luogo si possa costruire un giusto futuro».
Che messaggio dà la croce al resto d’Italia?
«Ha un linguaggio oggettivo che viene dalla parola di Dio e dal Vangelo. È il messaggio di un amore donato senza confini, aperto e accogliente. La croce, anche quella di Cutro, è una tragedia abitata dall’amore per diventare un fermento di novità per tutto il nostro territorio e, più ampiamente, per la comunità umana».
I bambini sopravvissuti chiedono di andare a scuola. State facendo qualcosa per sostenerli?
«Ci stiamo dando da fare anche se al momento ci sono dei vincoli di carattere giuridico che non possiamo scavalcare. Non c’è dubbio, però, che stiamo chiedendo, come comunità, che ci sia una attenzione ai più piccoli perché il loro desiderio di integrazione e di vita non venga intrappolato nelle pastoie burocratiche. Come diocesi, poi, abbiamo una piccola rete di accoglienza diffusa. Siamo contrari alle grandi strutture, perché ci rendiamo conto che creare luoghi in cui siano ammassate le persone è sempre poco umano. Cerchiamo invece delle sistemazioni che siano a misura di persona. E non abbiamo difficoltà perché questo territorio ha nel suo dna l’accoglienza dell’altro. C’è un terzo settore molto vivace, ci sono tante iniziative. Crotone è sempre agli ultimi posti delle classifiche, ma, senza presunzione, credo che siamo ai primi posti per umanità e calore».