Una vita spesa per la vita: Paola
Bonzi è inarrestibile nel
suo impegno per la tutela
delle mamme e dei loro bambini.
Un impegno che le ha fatto meritare
il prestigioso Ambrogino d’oro, il premio
che ogni anno viene attribuito ai milanesi
che si sono distinti in vari campi. «È
stata una lieta sorpresa», commenta la
Bonzi. «Mi ha fatto piacere, ma ora fa già
parte dei ricordi e torno a guardare avanti
». Paola Bonzi, cieca da quando aveva
poco più di vent’anni, è infaticabile nello
svolgere un ruolo sociale sempre a favore
di chi ha bisogno. Che si tratti dell’insegnamento
come di una buona parola.
Nata nel mantovano nel 1943, aveva
solo quaranta giorni quando la famiglia
si è trasferita nel capoluogo lombardo. A
ventitré anni ha perso la vista: «Mi sono
ammalata agli occhi che Cristiana, la mia
prima figlia, aveva quattro mesi. Forse la
mia giovane età mi ha impedito di farne
una tragedia: ho continuato la mia vita,
ho avuto un secondo figlio, ho subito vari
ricoveri e due interventi chirurgici. Della
mia malattia non si sa nulla se non che si
chiama uveite e che consiste nell’infezione/
infiammazione della coroide, una parte
dell’occhio che oggi nei miei occhi non
esiste più. La retina appare come una carta geografica, per cui non lascia passare
le immagini. Il nervo ottico è sicuramente
atrofizzato. Ma io sono rimasta la stessa,
con la consapevolezza, però, di avere
sempre bisogno degli altri».
Il suo è un curriculum di studi corposo
e continuo. Al diploma magistrale è
seguita un’ampia formazione: un corso
di specializzazione in Cattolica per poter
insegnare a bambini con ritardo mentale,
quattro anni d’Istituto superiore di
scienze religiose, il corso triennale per
consulente familiare, l’iscrizione al relativo
albo e la scuola di psicoterapia familiare
di Milano. Poi la didattica: «Ho insegnato
per sei anni presso l’Istituto Sacra
famiglia di Cesano Boscone e per altri
dieci ho insegnato religione nelle scuole
medie ed elementari».
Un evento in particolare
l’ha messa a dura prova: «Una
gravidanza difficile, la seconda, durante
la quale ho conosciuto la solitudine della
donna incinta con problemi. Ho deciso
a quel punto che, quando i miei figli fossero
stati grandi, avrei voluto essere vicina
alle donne in difficoltà a causa di una
gravidanza». È così che trent’anni fa Paola
fonda il Centro di aiuto alla vita (Cav),
presso la clinica milanese Mangiagalli.
Lo dirige senza percepire uno stipendio,
semplicemente a titolo di volontariato
Paola è una persona sensibile quanto
concreta: «Ogni tanto mi sento un’extraterrestre.
Mi è sempre piaciuto lavorare,
prima nella scuola e poi come volontaria.
Sono innamorata di tutti i bambini e mi
piace molto coltivare le relazioni». Relazioni
che a volte si fanno difficili come quando,
a seguito del suo impegno in politica
diversi anni fa con una lista che si presentava
con un programma che a certe femministe
non piaceva, è stata duramente
contestata: «Una sera, di ritorno da un comizio,
ho trovato i muri di casa mia imbrattati,
con scritte offensive. Anche i citofoni
e l’ingresso del giardino erano stati oggetto
di spregio da parte dei vandali».
Non c’è rabbia nel suo resoconto. Sembra
che non ci sia spazio per il rancore in
lei. Impressione ribadita quando dice che
la fa gioire «la serenità ritrovata di una persona
che era arrivata da me disperata».
Paola racconta di faticare a comprendere
certe posizioni istituzionali, l’individualismo,
il qualunquismo e la non solidarietà.
Le piace studiare, informarsi, partecipare
a convegni, scrivere e la entusiasma «la
nascita dei bambini e gli amici».
Dell’oscurità dice: «Non è mai uguale,
perché si colora di giallo, rosso, nero. A
volte diventa luminosità eccessiva: sono
fenomeni cerebrali. E la mia vita non è assolutamente
al buio! La ritengo in salita e
spero di arrivare in cima».
Si sogna quasi
sempre vedente a guidare la sua Seicento
azzurrina e a leggere enormi quantità di
libri. Le risulta un po’ doloroso non poter
vedere i nipotini e le è difficile non essere
autonoma. Chiude con questo aneddoto:
«Sono sempre di fretta per cui mi
organizzo con degli automatismi. Le cose
devono stare sempre al loro posto. Un
giorno metto a bollire l’acqua per la pasta
e preparo un pentolino per il sugo in
cui verso olio e metto la cipolla. Apro la
porta del frigorifero e metodicamente acciuffo
una bottiglia che so essere passata
di pomodoro. Sfrigolio, ma nessun odore
di sugo. Assaggio: mi avevano sostituito
la passata con un succo di frutta tropicale!
Un guizzo di rabbia per il tempo perso
e sono esplosa in una risata».