Quando parla di sua madre, la voce di Paola Saluzzi si addolcisce: il ritmo delle parole rallenta, come a voler fare fisicamente spazio ai sentimenti che accompagnano il ricordo di lei. Il primo a farsi largo è l’affetto, palpabile, che la figlia nutre verso la madre. Dopodiché arriva, irruente e solare, il senso di gratitudine: un sentimento di antica memoria, ma che innerva tuttora l’anima e il carattere della Saluzzi. È a sua madre, infatti, che la conduttrice deve il dono della fede e, con esso, quello sguardo di speranza e forza verso il mondo che l’ha spinta a desiderare di fare la differenza. Come donna, ma anche come giornalista televisiva. Dal 26 maggio torna su Tv2000 per raccontare dieci Ritratti di coraggio: uno a puntata, per ribadire che un mondo migliore è possibile. Proprio come le ha insegnato sua madre…
Anche se non fa parte del novero del programma, partiamo da quella che sembra essere la prima, vera, storia di coraggio nella quale si è imbattuta: quella di sua madre.
«È grazie a lei se conosco da vicino il significato dell’espressione “il dono della fede”. È riuscita a trasmettermela come il valore più naturale della vita, tanto che non sono mai dovuta andarmi a cercare dei motivi per credere. La fede è sempre stata in me: me l’ha regalata lei».
Com’era il suo rapporto con Dio?
«Mia madre amava ripetere: “Io ho la fede di don Camillo. Bisogna parlare direttamente con Gesù: quando hai un pensiero o qualcosa che ti turba, parla con lui perché c’è sempre Qualcuno che ti ascolta”. Inoltre, i discorsi e i gesti legati alla fede erano sempre accompagnati da una grande tenerezza. Per esempio, all’epoca della mia infanzia, i bambini più piccoli erano esentati dal seguire la Messa. Noi andavamo comunque in chiesa: non per la funzione, ma per ringraziare Dio della settimana che ci aveva donato. Entravamo, restavamo un po’, e poi si poteva andare a giocare. Un gesto semplice, di affetto».
Non ha mai avuto ripensamenti, nemmeno crescendo?
«Mai. Ricordo che spesso, a tavola, commentavamo insieme le notizie o le cose terribili che accadevano nel mondo. Mia madre riusciva sempre a dialogare con noi, riconoscendo le cose per quello che erano e motivandole, ma su un punto era irremovibile: nulla di tutto ciò che potevamo vedere o sentire doveva indurci a mettere in discussione la fede. Così è stato. Persino lo scorso Natale, quando mi sono trovata al capezzale di mia madre, nel reparto di oncologia, mi è venuto spontaneo dirle: “Arrivederci”, anziché “Addio”. Ora che lei è morta sono ancora più determinata a custodire e a fare mio quello che mi ha insegnato».
Crede che la fede dia maggiore “tridimensionalità” e valore anche al suo lavoro di giornalista?
«Assolutamente. La fede ti permette di scorgere, persino nella tragedia più grande, tratti straordinari di vita. Per questo da sempre mi batto affinché, nel racconto giornalistico, ci sia sempre spazio anche per il racconto di chi, all’interno di quella tragedia, si è battuto per il bene, per contrastare l’ombra. Mi creda: ci sono sempre persone così».
… eroiche?
«Di più: coraggiose. L’eroismo è per pochi, mentre il coraggio è alla portata di tutti. Il coraggio non è un dono o una dote che ti ritrovi addosso dalla nascita, ma una scelta: una forza che va allenata, ogni giorno, e che ti dice “non fermarti”».
Sul coraggio lei ha costruito un intero programma, per Tv2000. Qual è secondo lei il motore del coraggio?
«Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non è l’assenza di paura, bensì l’amore: chi ha coraggio prova solitamente una fifa blu, ma va avanti, ogni giorno. Perché ama».
Che differenza c’è tra avere coraggio e nutrire speranza?
«Il coraggio è il terriccio buono dove il seme della speranza può diventare albero. E quando questo accade, non lo abbatti più. Mi spiego meglio: il coraggio quotidiano di una persona fa crescere in altri la speranza che un mondo diverso sia davvero possibile. Nel mio piccolo è quello che cerco di fare: certo, non sono dieci puntate a creare un mondo nuovo però sono dieci tessere del mosaico della vita. Faremo poca differenza, ma quel poco c’è».
Di cosa parlerete in questa nuova stagione?
«Ho voluto spostarmi su temi ancora più legati al sociale, raccontando di persone che non si dichiarano sconfitte. Apparentemente sembrerebbero tali, invece sono uomini e donne che hanno trasformato la difficoltà quotidiana in un allenamento a non mollare mai. Penso per esempio alla storia di un ex giocatore d’azzardo: il suo coraggio sta nell’aver detto, davanti alla comunità dove viveva, di aver sbagliato. Oggi presiede un’associazione che aiuta i ludopatici e si è ritrovato a supportare le stesse persone che, all’epoca della sua ammissione di responsabilità, lo guardavano male. Il coraggio sta nel fare il gesto giusto per primi».
Occuparsi di cronaca e sociale vuol dire mettersi in ascolto della vita. Cosa l’affascina dell’umano?
«Come dice Goethe, dopo la prima risposta sono ostaggio del mio interlocutore. L’ascolto, curioso e affamato di conoscenza, è alla base di tutto il mio lavoro. Anche per questo non mi preparo mai delle domande scritte: con me porto solo una scheda sulla persona. Il complimento più bello che ho ricevuto è stato quando mi hanno detto che le mie non erano interviste, ma dialoghi».