La felicità non guarda alle casistiche. Non esiste un momento giusto per essere felici, né alcuna condizione da rispettare per diventarlo. Non c’è nemmeno un’ora né un luogo, o tanto meno un’età o un iter sociale da assolvere. La felicità gioca infatti una partita tutta sua, più alta, insinuandosi nelle pieghe più impensabili dell’esistenza, spettinandola fin nei dettagli. Non ci chiede particolari requisiti sociali, ma solo di essere presenti a noi stessi: possiamo avere «tutto in ordine e niente a posto», essere confusi o affaticati, eppure aspirare alla felicità. A questo sentimento così potente e così dimenticato, Paola Turci ha voluto dedicare il suo nuovo album, Viva da morire: dieci canzoni che raccontano «di esistenze come le nostre, che a un certo punto hanno avuto un incidente, un imprevisto, un inciampo e ci stavano sfuggendo via ma poi le abbiamo riprese. Dunque del miracolo che oggi siamo», come spiega la cantante. Un disco che è un inno alla vita così com’è, con i suoi capitoli più dolorosi e quelli più felici. Un inno a non rinunciare alla felicità, che la Turci sente di aver finalmente trovato.
Negli anni, lei ha purtroppo sperimentato personalmente quanto la vita possa essere dura. Per non dire spietata, a volte. Come si fa a non rimanere travolti dal dolore e dalla fatica?
«Non si può. Il dolore ti travolge: non puoi sottrarti. Non solo: è un ostacolo che, per essere superato, va vissuto. Per quanto possa fare male, ci devi passare attraverso».
È un viaggio fine a se stesso o c’è la possibilità che dischiuda nuovi orizzonti?
«La sofferenza può diventare un potente strumento interpretativo per comprendere il modo in cui stiamo al mondo. Per certi versi, mette alla prova la tua natura: c’è chi dopo un grande dolore si incattivisce e chi, invece, impara a sorridere alla vita».
Tra le cose che il dolore le ha svelato c’è anche la fede. Molti sostengono però che la religione sia un mero palliativo, una consolazione per chi non ha altre armi per rimettersi in piedi. Perché non può essere così?
«Non può essere così perché la fede non è una scelta, ma un dono. Poi, certo, ci sono persone che si mettono in ascolto più di altre, che aspirano a una dimensione spirituale, ma credere resta un dono. Senza contare che la conversione non semplifica necessariamente la vita, anzi».
Anche la fede, come l’esistenza stessa, può rivelarsi ostica?
«La fede mi ha regalato un periodo meraviglioso, pieno di gioia: ero e sono così felice che per la prima volta ho potuto affrontare l’idea di morire. Tuttavia il primo periodo della mia conversione ha reso tutto molto faticoso: accettavo ogni “dogma” in maniera assoluta e totalizzante, ma come si fa, per esempio, a sopportare la sofferenza con il sorriso? Non si può, mi dicevo. E come si fa a offrire la sofferenza? Suona come un paradosso. Queste domande mi spiazzavano e ammetto di aver attraversato un momento di crisi. Ne sono uscita quando ho realizzato che Dio mi vuole felice. Il senso di colpa, così come il giudizio, è una cosa sulla quale fanno leva gli uomini, non il Signore».
Come si è avvicinata alla fede?
«In realtà, me ne tenevo accuratamente alla larga. Nasco laica e convintamente atea. A Lourdes, per esempio, non sarei nemmeno dovuta andarci: l’ho fatto perché non ho potuto dire di no a una persona cara che mi ha chiesto di accompagnarla. Diciamo che c’è stata una concatenazione di eventi che mi ha portato verso un’unica direzione: credere».
Cosa è successo a Lourdes?
«Non amo parlare di questi temi perché per me la fede si vive in una dimensione privata. Ognuno è libero di viverla come la preferisce. Quando sono partita per Lourdes nel 2007, ho deciso di portare la chitarra perché volevo solo cantare. Non volevo essere coinvolta in alcuna attività: sarei stata lì per suonare per i malati, null’altro. Invece, proprio sul treno che mi avrebbe portato a Lourdes, ho fatto un incontro accidentale, con uno sconosciuto: abbiamo iniziato a parlare, per ore e ore. Sono affiorati ricordi e domande. Una volta arrivata a Lourdes, mi sentivo sopraffatta».
Per prima cosa ha voluto confessarsi: una scelta strana, per una persona convintamente atea...
«Dentro di me si era scatenato qualcosa e avevo bisogno di capire, di fare domande, di mettere a fuoco quello che stava succedendo. Nulla mi aveva colpito così tanto, prima d’allora, nella vita. Così, la prima cosa che ho fatto arrivata a Lourdes è stato cercare un sacerdote per confessarmi».
In un’epoca di certezze (social) assolute, il suo nuovo album non dà facili ricette esistenziali ma loda la gioia di vivere. Perché non si è voluta sbilanciare?
«Non suono per insegnare qualcosa alla gente ma per condividere delle emozioni: sono quelle che, prima di tutto, ci uniscono. A parlare nelle mie canzoni sono le esperienze che ho fatto nella vita, non le idee o le tesi che vorrei sostenere. Mi piace immaginarmi come una cantante che vive, si emoziona e gioca con la musica».
Da poco sono trascorsi i 25 anni dall’inizio del genocidio del Ruanda: una tragedia sulla quale lei ha scritto una canzone (che ha vinto il premio Amnesty, ndr). Cosa abbiamo imparato da questa espressione così violenta del male?
«La mia canzone è nata dal dolore e poi da un moto di rabbia. La storia del genocidio in Ruanda pone molte domande. La prima è come mai la notizia non sia stata comunicata mai chiaramente in Occidente. La seconda, non meno importante, è che purtroppo non siamo riusciti a trarre una lezione da questo. E dire che il genocidio non è un evento improvviso: è una goccia che poi diventa mare».