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mercoledì 23 aprile 2025
 
Superare il dolore
 
Benessere

Paolo Lamperti: «Ho subito la paralisi, ma nel dolore ho scorto il paradiso»

10/09/2016  Il giovane milanese ci spiega che cosa vuol dire rinascere dopo una grave malattia che lo ha paralizzato: «Non controllavo il mio corpo, eppure la testa era lucida», racconta. E dice: «Ho potuto sperimentare il paradiso...».

Paolo Lamperti è un buon padre di famiglia. Nato nel 1981 a Milano, dove vive e lavora. A un certo punto della vita, ha temuto che i figli potessero avere paura di lui. È successo quando, all’improvviso, è stato colpito dalla sindrome di Guilliam Barrè, una disabilità che lo aveva reso completamente paralizzato. Curato nel centro Nemo dell’ospedale Niguarda di Milano, è ora guarito.

Che cosa avvenne nel 2013?

«Il 29 gennaio 2013 è arrivata la sindrome di Guilliam Barrè. Stavo mettendo a posto i giochi delle bambine e sono caduto per terra. Le gambe non hanno retto. Sono stato portato al Pronto soccorso di Desio e ho fatto poi centocinquanta giorni d’ospedale: tredici di neurologia, trentadue di terapia intensiva e cento al centro di riabilitazione Nemo».

Una situazione complessa: come hanno reagito i tuoi?

«La reazione della mia numerosa famiglia è stata immediata. Genitori, fratelli, cognati e amici si sono tutti mobilitati per venire a fare i turni presso il mio letto, perché non potevo più muovermi e avevo bisogno di tutto».

Come hai vissuto quei momenti?

«La neurologia mi ha tolto la paura che avevo degli ospedali. È stata un’esperienza talmente “di schianto” che non ho nemmeno fatto in tempo a pensarci. Ho fatto l’esperienza del corpo che ti abbandona, che non controlli, mentre la testa c’è, e sei lucido. La terapia intensiva mi ha costretto alla completa dipendenza, dandomi la consapevolezza che ci siamo e respiriamo perché siamo voluti da un altro. La riabilitazione ha rappresentato il ritorno alla vita: è qualcosa di ineffabile, vuol dire reimparare a fare tutto. Con molta pazienza e docilità».

Spesso parli del rapporto che hai costruito in ospedale con gli altri malati e con il personale medico: per te è stato speciale, vero?

«Al Nemo, chi mi dava davvero forza erano gli altri malati, in una condizione molto più critica della mia e non reversibile. Tutti i pazienti e i loro parenti, però, tifavano per me. Un’esperienza di amore alla vita unica. Poi ricordo la preparazione del personale. E l’umanità che respiri, con la costante provocazione alla non scontatezza della vita. Quel posto è il paradiso, per certi aspetti».

Ma prima hai vinto le tue paure…


«Già… Ero convinto che le mie figlie non mi avrebbero riconosciuto se fossero venute a trovarmi. Ero dimagrito trenta chili, stavo in carrozzina, portavo i tutori a braccia e gambe ed ero immobilizzato per metà faccia».

Invece, con le bambine è andata diversamente, giusto?

«Ci siamo rivisti dopo cento giorni, ero agitatissimo. Loro non hanno fatto passare nemmeno mezzo secondo e mi sono corse incontro. E un giorno Tecla, la più grande, mi ha detto: “Anche se sei un po’ diverso, non mi interessa perché tu sei sempre il mio papà”! Quante cose si imparano dai figli».

Come sei guarito da una situazione così estrema?

«La sindrome, in un certo senso, lo prevede. Senza dubbio, io l’ho avuta in forma molto violenta e ho rischiato di morire. Ma ne sono uscito perché qualcuno, con la “Q” maiuscola, mi ha riacciuffato per i capelli (che non ho!). Senza dubbio, è stata determinante anche la mia tenacia e il desiderio di vita».

Senti di avere qualcosa in più rispetto a prima?

«Dico sempre che non basta essere stati immobili centocinquanta giorni per cambiare definitivamente e diventare più buoni: sono sempre lo stesso “ragazzaccio” di sempre. Sono lo stesso, sì, ma voluto, guardato e preferito da uno che mi dice: “Così come sei, così vai bene”. Meno male che non siamo giudicati esclusivamente per la nostra coerenza, sennò saremmo tutti persi…».

Parli di Dio: sei credente?

«Assolutamente sì».

Dopo l’accaduto c’è stato un nuovo arrivato in famiglia: sentirsi padre a questo punto ha significato qualcosa di particolare?

«Senza dubbio, ho riacquistato una nuova e più ricca consapevolezza che niente è scontato».

Lavoro, salute, famiglia, fede: come si fondono questi fattori e come li trasmetti agli altri?

«Occorre che ci sia qualcosa che tiene la vita unita. Mettere il cuore, l’intelligenza e la libertà in tutto quello che si fa è condizione perché la vita sia una. Provo a vivere questo con Teresa, mia moglie, e i miei amici. Per fortuna, non si è soli e c’è sempre qualcuno da guardare che, in quel momento, è più avanti di te e ti tira dietro».

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