Una vita all’insegna della
passione per i sapori, per
il gusto, per la buona tavola.
Paolo Massobrio, 55
anni, sposato da 29 anni con Silvana
da cui ha avuto tre figli – Irene,
Marco e Giovanni – è giornalista di
enogastronomia ed economia agricola
da 31 anni. Credere lo ha intervistato
in occasione di Golosaria, una
rassegna annuale di cultura e gusto
promossa da Massobrio, in programma
al MiCo di Fieramilanocity dal 5
al 7 novembre.
Quali sono le origini della sua
fede cristiana?
«È nata all’oratorio, al quartiere
Feltre di Milano dove ho conosciuto
un sacerdote che mi è stato
padre, don Carlo Casati, capace di
assecondare anche le mie inclinazioni
giornalistiche. Poi ho incontrato
l’esperienza di Comunione e liberazione
che è stata come vedere il
mare e nuotare verso nuovi lidi. Ho
conosciuto don Luigi Giussani, determinante
per la mia fede e per la
vocazione professionale, così come
lo è oggi don Julián Carrón, suo successore
alla guida del movimento.
Il valore della simpatia per l’uomo
che mi testimonia, la possibilità di
raccontargli gli incontri che faccio
e di confrontarmi anche con lui, sono
motivi di crescita doni preziosi».
Quando e come nasce la sua
passione per il cibo?
«Parafrasando Giovanni Paolo
II, dal sogno della giovinezza. La mia
famiglia è originaria di un paese del
Monferrato, Masio, dove i miei nonni
erano immersi nella civiltà contadina.
Nonno Paolo faceva il macellaio,
nonna Angiolina la vignaiola, lo zio
Vigino il panettiere. Io sono nato a
Milano, ma la nostalgia per quella
terra e quella gente era fortissima e
accentuava la curiosità. Le mie estati
migliori erano in campagna, con
i mitici ricordi della vendemmia o
del raccolto della mietitura. All’Università
la mia tesi di laurea fu sul
mercato del vino in Italia. Il preside
di facoltà, Gianfranco Miglio, volle
discuterla con me e questo accese
anche l’interesse dei media che mi
chiesero di pubblicare i risultati. Volevo
fare il giornalista politico, sono
stato trascinato nell’enogastronomia
anche perché l’anno del mio
servizio militare, a Castello d’Annone
nel Monferrato, scoppiò lo scandalo
del vino al metanolo e io avevo
notizie di prima mano».
Cosa c’entra la passione per
il cibo con la sua fede cristiana?
«C’entra, eccome. E lo dico citando
una frase di sant’Hildegarda di
Bingen, dottore della Chiesa: “Tutte
le cose che possiamo vedere, toccare
e percepire con il gusto sono state
create da Lui. Ed Egli le ha viste
tutte in qualche modo indispensabili
per l’uomo”. Ecco, il gusto è una cifra
persuasiva della nostra origine. Il
gusto esiste perché sia più facile riconoscerlo,
mentre l’appiattimento del
gusto, la cancellazione delle stagioni
a tavola, è come un disegno perverso
per offuscare questa certezza. Per
questo è importante culturalmente
il prodotto di stagione, perché mostra
un ordine che per certi versi è
fantastico. Se guardiamo i frutti che
arrivano a ogni stagione scopriamo
che ci sono quelli che tolgono la sete
quando fa caldo e quelli che scaldano
quando fa freddo».
Molti ritengono che la passione
per la tavola sia qualcosa di non
“confacente” alla vera religiosità.
Che ne pensa?
«Uno dei santi più affascinanti
è Benedetto. Se si legge la sua regola
si capisce il realismo cristiano che, a
differenza di altre religioni, non proibisce,
ma indica la misura. Nella Regola,
san Benedetto parla del vino (ne
suggerisce un’emina al giorno, circa
un quartino odierno), ma anche della
tavola, dove il mangiare in silenzio è
un invito a essere attenti alle esigenze
del vicino (gli manca l’acqua, il pane…)
e al dono che si ha di fronte. Il
problema è la sublimazione del cibo e
del vino, che non ha misura e diventa
edonismo. Mentre il mangiare e il bere,
presenti nella vita stessa di Gesù,
sono segno di altro. La vera religiosità
esiste, nella vita delle persone, se non
c’è altro di mezzo rispetto alla tensione
divina, o meglio se tutto serve a
quella tensione. Il cristianesimo che
ho incontrato non ha mai censurato
nulla, semmai lo ha posizionato nella
sua giusta dimensione. Che è poi
un’esigenza sociale, se pensiamo che
un’alimentazione disordinata o esagerata
porta a patologie diffuse nella
nostra epoca. E questo è un peccato,
nel senso letterale del termine, perché
ci si fa del male avendo sublimato
una cosa buona».
Come viene considerato il suo
essere credente negli ambienti
della gastronomia e dell’enologia?
«Come una sfida. Curo un giornalino
che invio ai seimila soci del
Club di Papillon dove racconto il
diario dei miei incontri, gli assaggi,
la vita. E provo a giudicare tutto,
commentando. È una sfida che
parte dalla domanda di Hildegarda:
perché c’è il gusto? Devo dire che a
questa sfida partecipano tutti, visto
che le iscrizioni al Club hanno un incremento
ogni anno. Poi c’è chi usa
un’appartenenza per creare steccati,
per dividere, per etichettare, ma
questo fa parte del genere umano.
Tutto ciò si combatte con la passione
per il proprio lavoro, che diventa
professionalità».
Da tempo si assiste a una
moltiplicazione di trasmissioni tv
sul cibo. A cosa è dovuta questa
moda? Non c’è il rischio di andare
verso una sorta di idolatria del
cibo?
«L’Italia ha scoperto di essere
un territorio unico al mondo, penetrato
da tanti popoli nella storia. Di
ognuno abbiamo conservato qualcosa
e questa è la fonte della nostra
biodiversità. Che era qualcosa di inesplorato
negli anni del boom industriale.
La scoperta di questa ricchezza
ha portato a una maggiore
attenzione, soprattutto nei media, fino a una esagerata esposizione mediatica.
Però, come mi ha fatto notare
lo scrittore Luca Doninelli, la
ricetta è qualcosa che riesce. Uno
la guarda perché riesce, in un momento
dove non riesce quasi più
nulla. Quindi c’è anche questo aspetto
consolatorio. Io stesso partecipo
a trasmissioni televisive e credo che
il contributo sia quello di offrire
maggiore conoscenza e consapevolezza.
Ogni anno poi organizziamo
Golosaria a Milano, una fiera dove
mettiamo su un piedistallo 300 piccoli
produttori che fanno le cose per
bene. Per tre giorni questi signori
si confrontano con 20 mila persone
che sono consumatori attenti, ma
anche operatori e ristoratori. E credo
che più i protagonisti della qualità
si incontrano, più producono
quei fenomeni del gusto che sono
necessari».