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martedì 24 giugno 2025
 
Golosaria
 
Credere

Paolo Massobrio: «Il gusto è dono del buon Dio»

09/11/2016  La civiltà contadina incontrata nel paese dei nonni in Monferrato, le iflessioni di santa Hildegarda, le istruzioni di san Benedetto su come mangiare con misura... Il celebre critico enogastronomico racconta in che modo ha scoperto il legame tra la fede e lo star bene a tavola

Una vita all’insegna della passione per i sapori, per il gusto, per la buona tavola. Paolo Massobrio, 55 anni, sposato da 29 anni con Silvana da cui ha avuto tre figli – Irene, Marco e Giovanni – è giornalista di enogastronomia ed economia agricola da 31 anni. Credere lo ha intervistato in occasione di Golosaria, una rassegna annuale di cultura e gusto promossa da Massobrio, in programma al MiCo di Fieramilanocity dal 5 al 7 novembre.

Quali sono le origini della sua fede cristiana?
 
«È nata all’oratorio, al quartiere Feltre di Milano dove ho conosciuto un sacerdote che mi è stato padre, don Carlo Casati, capace di assecondare anche le mie inclinazioni giornalistiche. Poi ho incontrato l’esperienza di Comunione e liberazione che è stata come vedere il mare e nuotare verso nuovi lidi. Ho conosciuto don Luigi Giussani, determinante per la mia fede e per la vocazione professionale, così come lo è oggi don Julián Carrón, suo successore alla guida del movimento. Il valore della simpatia per l’uomo che mi testimonia, la possibilità di raccontargli gli incontri che faccio e di confrontarmi anche con lui, sono motivi di crescita doni preziosi».

Quando e come nasce la sua passione per il cibo?

«Parafrasando Giovanni Paolo II, dal sogno della giovinezza. La mia famiglia è originaria di un paese del Monferrato, Masio, dove i miei nonni erano immersi nella civiltà contadina. Nonno Paolo faceva il macellaio, nonna Angiolina la vignaiola, lo zio Vigino il panettiere. Io sono nato a Milano, ma la nostalgia per quella terra e quella gente era fortissima e accentuava la curiosità. Le mie estati migliori erano in campagna, con i mitici ricordi della vendemmia o del raccolto della mietitura. All’Università la mia tesi di laurea fu sul mercato del vino in Italia. Il preside di facoltà, Gianfranco Miglio, volle discuterla con me e questo accese anche l’interesse dei media che mi chiesero di pubblicare i risultati. Volevo fare il giornalista politico, sono stato trascinato nell’enogastronomia anche perché l’anno del mio servizio militare, a Castello d’Annone nel Monferrato, scoppiò lo scandalo del vino al metanolo e io avevo notizie di prima mano».

Cosa c’entra la passione per il cibo con la sua fede cristiana?

«C’entra, eccome. E lo dico citando una frase di sant’Hildegarda di Bingen, dottore della Chiesa: “Tutte le cose che possiamo vedere, toccare e percepire con il gusto sono state create da Lui. Ed Egli le ha viste tutte in qualche modo indispensabili per l’uomo”. Ecco, il gusto è una cifra persuasiva della nostra origine. Il gusto esiste perché sia più facile riconoscerlo, mentre l’appiattimento del gusto, la cancellazione delle stagioni a tavola, è come un disegno perverso per oŠffuscare questa certezza. Per questo è importante culturalmente il prodotto di stagione, perché mostra un ordine che per certi versi è fantastico. Se guardiamo i frutti che arrivano a ogni stagione scopriamo che ci sono quelli che tolgono la sete quando fa caldo e quelli che scaldano quando fa freddo».

Molti ritengono che la passione per la tavola sia qualcosa di non “confacente” alla vera religiosità. Che ne pensa?

«Uno dei santi più affŠascinanti è Benedetto. Se si legge la sua regola si capisce il realismo cristiano che, a diŠfferenza di altre religioni, non proibisce, ma indica la misura. Nella Regola, san Benedetto parla del vino (ne suggerisce un’emina al giorno, circa un quartino odierno), ma anche della tavola, dove il mangiare in silenzio è un invito a essere attenti alle esigenze del vicino (gli manca l’acqua, il pane…) e al dono che si ha di fronte. Il problema è la sublimazione del cibo e del vino, che non ha misura e diventa edonismo. Mentre il mangiare e il bere, presenti nella vita stessa di Gesù, sono segno di altro. La vera religiosità esiste, nella vita delle persone, se non c’è altro di mezzo rispetto alla tensione divina, o meglio se tutto serve a quella tensione. Il cristianesimo che ho incontrato non ha mai censurato nulla, semmai lo ha posizionato nella sua giusta dimensione. Che è poi un’esigenza sociale, se pensiamo che un’alimentazione disordinata o esagerata porta a patologie diffŠuse nella nostra epoca. E questo è un peccato, nel senso letterale del termine, perché ci si fa del male avendo sublimato una cosa buona».

Come viene considerato il suo essere credente negli ambienti della gastronomia e dell’enologia?

«Come una s—fida. Curo un giornalino che invio ai seimila soci del Club di Papillon dove racconto il diario dei miei incontri, gli assaggi, la vita. E provo a giudicare tutto, commentando. È una s—fida che parte dalla domanda di Hildegarda: perché c’è il gusto? Devo dire che a questa s—fida partecipano tutti, visto che le iscrizioni al Club hanno un incremento ogni anno. Poi c’è chi usa un’appartenenza per creare steccati, per dividere, per etichettare, ma questo fa parte del genere umano. Tutto ciò si combatte con la passione per il proprio lavoro, che diventa professionalità».

Da tempo si assiste a una moltiplicazione di trasmissioni tv sul cibo. A cosa è dovuta questa moda? Non c’è il rischio di andare verso una sorta di idolatria del cibo?

«L’Italia ha scoperto di essere un territorio unico al mondo, penetrato da tanti popoli nella storia. Di ognuno abbiamo conservato qualcosa e questa è la fonte della nostra biodiversità. Che era qualcosa di inesplorato negli anni del boom industriale. La scoperta di questa ricchezza ha portato a una maggiore attenzione, soprattutto nei media, fino a una esagerata esposizione mediatica. Però, come mi ha fatto notare lo scrittore Luca Doninelli, la ricetta è qualcosa che riesce. Uno la guarda perché riesce, in un momento dove non riesce quasi più nulla. Quindi c’è anche questo aspetto consolatorio. Io stesso partecipo a trasmissioni televisive e credo che il contributo sia quello di offrire maggiore conoscenza e consapevolezza. Ogni anno poi organizziamo Golosaria a Milano, una fiera dove mettiamo su un piedistallo 300 piccoli produttori che fanno le cose per bene. Per tre giorni questi signori si confrontano con 20 mila persone che sono consumatori attenti, ma anche operatori e ristoratori. E credo che più i protagonisti della qualità si incontrano, più producono quei fenomeni del gusto che sono necessari».

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