Luciana Babini Orizio, moglie di un amico di famiglia. Foto di Fabrizio Annibali.
Francesco Montini e il fratello Battista, «quello di Milano», venuti a trovare gli amici in campagna, a Cassano San Martino. Al pianoforte, la sera, il maestro suona per loro. È il 1957 e il futuro Papa annota nel suo diario: «Cena e musica nella casa ospitale di Agostino Orizio».
Anni dopo sarà proprio «quello di Milano», ormai Paolo VI, a parlare con luciana babini orizio in un breve colloquio privato. Siamo nel 1966 e il grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli ha appena concluso il suo concerto nella sala del Concistoro, con al fianco Orizio. Paolo VI si congratula e poi si ferma un attimo per suggerire
a Luciana «i doveri che deve avere la moglie
di un artista, tra cui, innanzitutto la pazienza e il
tatto. Consigli preziosi che spero di aver messo
in pratica durante la lunga vita insieme al mio
Agostino».
La beatificazione di Giovanni Battista, Enrico,
Antonio, Maria Montini è l’occasione per rispolverare
i ricordi. Per riscoprire, in una Brescia
sempre molto riservata, aneddoti e tracce di un
Papa che non poteva che essere nato qui, in un
cattolicesimo sociale fatto di fede e carità, di
amore per gli altri, di attenzione. «Ci sono piccoli particolari che svelano quanto Montini
fosse legato e attento alla sua terra», racconta
l’avvocato Cesare Trebeschi, classe 1925, «l’ultimo
montiniano» come viene affettuosamente
soprannominato. «Ricordo per esempio quando
in udienza diceva ai bambini che da piccoli si interrogavano
sempre su una scritta sul cancelletto
del santuario della Stella, luogo a lui particolarmente
caro. C’era scritto sorores, perché era stato
regalato dalla famiglia di queste due sorelle.
E Paolo VI diceva: “Ci chiedevamo cosa significa
sorores?”. Questo per dire che, anche dopo molti
anni, quando era già stato in segreteria di Stato,
nunzio, cardinale di Milano, e finalmente Papa
non aveva dimenticato i posti dove giocava e pregava
da bambino insieme a mio padre Andrea».
Lo storico Mario Taccolini, Foto di Fabrizio Annibali.
E anche se, da Pontefice, non era più tornato
a Brescia, «perché sarebbe stata una gioia troppo
grande, che un Papa non doveva permettersi»,
Brescia la portava nel cuore, nella testa, nella
formazione. «Nella Bibbia, quando il generale
Naaman fu guarito dal profeta Eliseo chiede cosa
doveva dare in cambio, ma il profeta risponde
che non deve nulla perché è Dio che lo ha guarito.
Allora il generale chiede di poter prendere delle
zolle della terra in cui è stato guarito. Credo», dice
Cesare Trebeschi, «che Paolo VI avesse portato
queste zolle di terra bresciana in Vaticano».
Con la famiglia Trebeschi l’amicizia datava
da molto lontano, da quando la mamma di Andrea,
rimasto orfano a tre anni, e quella di Battista
Montini erano diventate amiche. Un rapporto
che poi si era consolidato nell’oratorio dei
padri Filippini della pace dove il padre Giorgio lo
aveva indirizzato e dove, aggiunge il professor
Mario Taccolini, direttore del dipartimento di
Scienze storiche e filologiche della Cattolica di
Brescia, «aveva avuto guide spirituali e culturali
come padre Paolo Caresana e padre Giulio
Bevilacqua, poi cardinale e padre conciliare. Lì
matura anche l’amicizia con Andrea Trebeschi,
che morirà nei campi di sterminio, martire della
Resistenza bresciana, con il quale condivise
emozioni e dubbi, esperienze di fede e riflessioni
politiche».
È questa «la realtà nella quale cresce
il giovane Giovanni Battista Montini, e che
incide sulla sua prima maturazione: quella di
un cattolicesimo sociale. Si tratta di una visione
di Chiesa locale per la quale l’intento di evangelizzare
si è sempre riverberato sulla vita sociale, attraverso la promozione di iniziative educative,
assistenziali, economiche e anche finanziarie,
sempre realizzate come espressione di una
concezione globale della salvezza cristiana»,
spiega ancora il professor Taccolini, che ha studiato
a fondo la figura di Paolo VI. E che racconta
di quanto Montini fosse attento alle persone e
capace di entrare in sintonia anche con i ragazzi.
«Ne ho un ricordo personale molto vivo quando,
allora dodicenne, chierichetto presso il santuario delle sante Capitanio e Gerosa in
Lovere, potei servir Messa – come si dice – all’arcivescovo
Montini, cui era tanto cara la famiglia
delle Suore di Maria Bambina. È intramontabile
la memoria della pensosità e della fisionomia –
che oggi definirei mistica – del futuro Paolo VI,
unita a quella della tenerezza con la quale mi
chiese il nome, rammentandomi che il 19 gennaio
sarebbe stata la festa del mio santo protettore
». Ricordi dolci che tornano in molti racconti.
Don Antonio Lanzoni, vicepostulatore della causa di beatificazione. Foto di Fabrizio Annibali.
E seppure, caratterialmente, «papa Montini
non aveva una immediatezza di rapporti, non
aveva la spontaneità di papa Giovanni, tuttavia
l’incontro con lui non lasciava mai indifferenti
», sottolinea don Antonio Lanzoni, vicepostulatore
della causa di beatificazione. «Ero giovane
seminarista quando lui era già Papa e dunque
non posso dire di avere avuto una amicizia particolare,
ma studiando i documenti e leggendo le
testimonianze si capisce bene che in realtà parlava
con i gesti, con i simboli. È un Papa che ha
rinunciato alla tiara, che ha voluto funerali sobri,
che ha preso per primo l’aereo. Si può dire
che i Papi dopo di lui stiano vivendo di rendita
nel modo di fare il Papa nel senso che, in realtà,
il contatto con la gente lo ha inventato Paolo VI.
E la gente, anche a distanza di anni, comincia a
scoprirlo. Persino a rendergli merito nelle questioni
più controverse. Proprio in questi giorni
dall’Olanda è arrivata una lettera di una suora
di clausura», racconta don Lanzoni. «Nella quale
la monaca vuole ringraziare Paolo VI per la
Humanae vitae. “Senza quel documento io non
sarei nata”, dice la suora. Perché sono state quelle
parole a far accettare ai suoi genitori che era
possibile aprirsi alla vita. Ecco, questi sono doni
inaspettati, anche se sconosciuti».
Cesare Trebeschi, figlio di un amico d'infanzia. Foto di Fabrizio Annibali.
E poi ci sono le storie pubbliche, «il grande
coinvolgimento che ebbe nella vicenda Moro:
è un elemento su cui richiamare la gente perché
il ruolo svolto, la sua famosa lettera ma, ancor di
più, la preghiera in San Giovanni in Laterano sono
dei vertici, delle punte alte di fronte alle quali
la gente non resta indifferente».
Non sono distaccate neppure le giovani
generazioni che, anzi, si emozionano a ripercorrere la vita di Paolo VI, i momenti del
concilio, i primi viaggi intercontinentali di un
Papa nell’itinerario proposto nella casa natale
restaurata, a concesio.
«Uno dei nostri grandi
progetti, insieme con la pubblicazione di tutto
il carteggio di papa Montini», spiega il direttore
dell’Istituto Paolo VI, don Angelo Maffeis. Che
si augura che Brescia, anche attraverso i racconti
di quanti lo hanno conosciuto, possa avvicinarsi
sempre di più al suo Papa. Per cominciare l’Anno
montiniano indetto fino all’8 dicembre 2015
ripercorrendo documenti, gesti, testimonianze,
per scoprire, come ha scritto il vescovo di Brescia,
monsignor Luciano Monari, «le motivazioni
semplici e dirette dei suoi comportamenti; la ricerca
appassionata della testimonianza a Gesù;
il disinteresse personale. In questo egli ha molto
da insegnarci; possiamo diventare umilmente
suoi alunni e cercare di apprendere da lui l’arte
di amare Gesù Cristo e l’arte di amare con verità
l’uomo».