Due donne diversissime,
eppure non distanti. Anzi,
sempre più vicine. La prima
bionda, aristocratica,
esuberante, sicura di sé
e forte del suo vissuto.
L’altra mora, più giovane
ma sfiorita, ripiegata su
sé stessa, tatuaggi dark sparsi per il
corpo, malinconia che trasuda dalla
pelle. Ad accomunarle un luogo: Villa
Biondi, casa di cura psichiatrica. E la
condizione: anche se la prima era stata
un dì la ricca padrona di casa, ora
sono entrambe internate. Beatrice e
Donatella, protagoniste de La pazza
gioia, il film con cui Paolo Virzì è stato
per la prima volta ufficialmente a
Cannes nella sezione Quinzaine des
Réalisateurs, lo spazio più vivace e
scapigliato del Festival. «Finora sulla
Croisette c’ero stato da spettatore»,
dice Virzì, 52 anni. «Waintrop, boss
della Quinzaine, mi ha invitato con
una bella lettera che mi ha convinto a
posticipare l’uscita del film pur di non
perdere una prestigiosa vetrina».
I grandi festival hanno ancora un
ruolo importante?
«Trovo che Cannes sia da sempre
la messinscena perfetta per far credere
al mondo una strepitosa bugia: che il
cinema sia la cosa più importante di
tutte. Addirittura, irrinunciabile».
Usando come passepartout la
commedia, lei è il regista che meglio
ha descritto le contraddizioni dell’italiano
moderno.
«C’è chi mi accosta a Risi o Monicelli
ed essendo stato io allievo di
un grande sceneggiatore come Furio
Scarpelli, la cosa mi piace. Se c’è però
un regista a cui mi sento vicino è Antonio
Pietrangeli: Io la conoscevo bene è
un capolavoro».
Spesso sono le donne protagoniste
dei suoi film. Da dove viene questa
sensibilità?
«Sia sul piano letterario che su
quello cinematografico, ho un debole
per i personaggi femminili. Da ragazzino,
leggevo i romanzi di Dickens e
Jack London ma anche quelli di Jane
Austen o Piccole donne. Qualcuno la
prenderà come un’eresia, ma preferisco
Jane Campion a Kubrick. Per La
pazza gioia, però, mi sono fatto aiutare
da Francesca Archibugi».
Con la sua società Motorino Amaranto,
la Archibugi ha prodotto “Il
nome del figlio”. In cambio, lei ha collaborato
al suo copione...
«La verità è che siamo amici e professionalmente
siamo cresciuti insieme.
Francesca poi, che ha girato Il grande
cocomero, sa quanto siano delicati i
temi neuropsichiatrici».
Beatrice e Donatella sono asociali,
perciò sottoposte a custodia giudiziaria.
Ma cosa avranno mai fatto di
tanto grave?
«Chi guarda lo scopre attraverso
i racconti smozzicati che l’una fa
all’altra con il tramutarsi in amicizia
dall’iniziale diffidenza. E man mano
che si alternano episodi, ora buffi ora
toccanti, in un’occasionale fuga alla
ricerca della libertà. Anzi, di felicità.
Istrionica e loquace. Beatrice è a suo
agio nel mondo, ma la famiglia l’ha
interdetta. Per la relazione adulterina
con un delinquente profittatore
nelle cui braccia l’ha spinta il marito
fedifrago. Ma anche perché sperperava
il denaro del casato. Donatella
invece viene dai bassifondi, da genitori
assenti per incapacità e indigenza. Circuita
dal volgare gestore di un locale
della Versilia, ha avuto un bimbo. Ora
però è sola e sul suo dossier si legge le
notazione di un grave reato. Sarà l’incontenibile
Beatrice a invadere il suo
mondo, per poi lasciarsi scoprire a sua
volta. Solo chi ha subito certe cose può
capire… Tra l’incipit tipo Qualcuno volò
sul nido del cuculo e momenti alla Thelma
& Louise (ma più amari) il film di
Virzì guida lo spettatore nei meandri
dell’anima. E cattura grazie alle superbe
interpretazioni di Valeria Bruni
Tedeschi (l’aristocratica Beatrice) e Micaela
Ramazzotti (Donatella)».
Qual è stata la scintilla da cui è
nato “La pazza gioia”?
«Un’immagine sul set de Il capitale
umano. Stavamo girando nel parco
della villa, in Brianza. Freddo, fango
dappertutto. A sorpresa si presenta
mia moglie Micaela: è il mio compleanno.
Io sono alla cinepresa: la accoglie
Valeria, nello svolazzante costume
di scena di Carla Bernaschi. Da lontano
le vedo parlare, complici, diversissime.
Mi dico: devo fare un film con quelle lì,
così brave. Quanto alla pazzia, già Il capitale
umano mostrava le psicosi dietro
opulenza e perbenismo. Racconto in
commedia solitudine e disperazione».
Donatella e Beatrice non sono
pazze. Si parteggia per loro.
«Più che alla cartella clinica, m’interesso
alle peripezie di due donne
dalle vite inguaiate. Basta poco e si è
bollati come pazzi. Punto l’obiettivo
sull’inadeguatezza della risposta della
Sanità italiana al mal di vivere. A
quarant’anni dalla Legge Basaglia, si è
giunti alla chiusura degli ospedali psichiatrici
giudiziari, gli OPG. Ma molti
internati sono ancora là perché non si
sa a chi affidarli. E gli altri si trovano in
istituti come Villa Biondi: costretti da
quelle camicie di forza chimiche che
sono i medicinali stordenti, impegnati
a intrecciare giunchi o a curare orti,
purché restino fuori dalla vista dei cosiddetti
sani».
Delicato è il tema della maternità
negata a una madre con problemi.
Nel caso Martina Levato, lei le darebbe
il figlio?
«Alt. Il film racconta le storie di
due personaggi, non detta giudizi.
Ogni caso fa storia a sé, va vagliato. Comunque,
la follia non mi spaventa. Mi
fa più paura chi ne ha paura».
Non tutto però va così male. C’è
l’impegno dei volontari…
«Frutto di buona volontà dei singoli.
La pazza gioia è una passeggiata
in quel manicomio a cielo aperto che
è l’Italia».