La risposta di papa Francesco alla domanda del piccolo Emanuele circa la sorte di suo padre, non credente, ha avuto una notevole risonanza mediatica e ha destato una certa meraviglia soprattutto in quanti ritengono il Regno dei cieli riservato solo a coloro che si dichiarano e professano di fede cattolica e praticano quanto credono nelle forme convenzionali, a volte stereotipate, più diffuse. Intanto mi sembra che dovremmo innanzitutto meravigliarci del fatto che, in un contesto secolaristico come il nostro e in un quartiere così problematico dal punto di vista sociale, ci sia chi si pone ed esprime la domanda sul destino eterno di una persona. Sembrerebbe infatti fuori tempo e fuori luogo, immersi come siamo in una serie di problematiche intramondane, occuparci dell’aldilà. E tuttavia forse non c’è modo più autentico di affrontare il nostro quotidiano e di vivere l’umano se non proprio quello di guardare, con gli occhi appunto di un bambino, noi stessi e il mondo dal di fuori. La domanda di senso, sul senso dell’esistenza, posta da chi si sta affacciando alla vita e vi sta muovendo i primi passi, che inciampano nella triste e drammatica esperienza della perdita di un genitore, non può non interpellarci e darci a pensare.
Ma ci interpella e ci fa riflettere anche la modalità che il Papa ha adottato nell’abbraccio ad Emanuele e nel rivolgersi alla comunità credente, chiedendo ai presenti di rispondere. Diremmo che più che a se stesso, alla propria autorità pontificia, al proprio magistero, Francesco si è voluto appellare al popolo di Dio, a quello che i teologi chiamano il sensus fidelium, attraverso il quale lo Spirito parla a tutti noi, offrendo risposte alle nostre domande fondamentali. E proprio perché è lo Spirito a parlarci, si tratta di risposte aperte e dinamiche, che possono metterci in crisi e aiutarci a ripensare il nostro essere cristiani nell’oggi della storia e di fronte alle problematiche della nostra vita e del mondo in cui viviamo. E del resto il papa non ha mancato di sottolineare che “chi dice chi va in cielo è Dio”, denunciando ogni presunzione anche umana di conferire passaporti per il regno dei cieli.
Articolando la risposta, Francesco ha sottolineato alcuni punti che devono riguardare ciascuno di noi e non solo il piccolo che gli ha posto la domanda. Innanzitutto si è soffermato sui fiori e sui frutti, che l’albero paterno ha fatto sbocciare. “Era una persona buona”, “dai frutti li riconoscerete” (Mt 7,16), infatti “non chiunque dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà del padre mio che è nei cieli, entrerà nel regno dei cieli” (Mt 7,21). E i redenti di Mt 25 sono tali perché hanno operato a favore degli ultimi, pur non avendo riconosciuto in loro il Cristo.
Ma il Papa ha anche appreso e sottolineato che quel papà non credente ha comunque battezzato i suoi figli, mostrando un’apertura verso la Grazia e la trascendenza, ovvero verso l’alterità, che non sempre si riscontra in credenti e non credenti. Il suo non credere, in tale circostanza, si è dimostrato non esclusivo, né fondamentalista o integralista, ma dialogico ed aperto, lasciando che i figli ricevessero la grazia sacramentale e quindi nella loro vita compissero le loro scelte, senza preclusioni di sorta. Magari anche lui era stato battezzato e non sappiamo perché si fosse dichiarato non credente, ma evidentemente ha percepito e vissuto il battesimo non come una coercizione nei confronti della sua libertà e delle sue scelte fondamentali. E in questa prospettiva non può non far riflettere il nome che il fanciullo porta, scelto anch’esso indubbiamente col consenso di suo padre.
Infine mi sembra di notevole interesse il fatto che Francesco abbia voluto innestare la nostra esperienza di Dio, con quella della paternità e figliolanza umana, data a ciascuno. L’aver avuto la fortuna di un’autentica figura paterna, ci aiuta e sostiene nel pensare e percepire Dio come padre, certamente misericordioso e buono più del nostro padre terreno. E questo richiamo non può essere indifferente in una società in cui le figure paterne risultano latitanti e spesso veicolano dei disvalori. Sarebbe stato oltremodo più difficile e complesso dover parlare della paternità divina al cospetto di un’esperienza umana come quella del padre-padrone o del padre latitante e fuorviante.
Nella fede cristiana l’umano e il divino si intrecciano e si incontrano e l’una dipende dall’altra in maniera imprescindibile. E a chi si fosse scandalizzato, ritenendo buonista la risposta di Francesco e prima di lui del popolo di Dio, andrebbe ricordato che questa sarebbe stata la risposta di Gesù di Nazareth alla domanda di senso, che forse oggi come oggi solo i bambini sanno porre e porgere, a un mondo adulto spesso distratto e rivolto solo al mondano.