«L’ignoranza di Dio porta alla violenza». Shaykh Ahmad Al-Tayeb, il grande Imam di Al Azhar è sulla stessa lunghezza d’onda di papa Francesco. I due si abbracciano più volte, si chiamano fratelli. Nella grande sala dell’università, punto di riferimento per il mondo sunnita, parlano ai partecipanti alla Conferenza internazionale sulla pace. E pace è la parola che viene più spesso citata. La usa anche lo speaker nel dare la parola a Francesco, al «Papa della pace che presenta la sua allocuzione». Dal canto suo Bergoglio saluta il grande imam chiamandolo fratello e ringraziandolo per aver ideato questo incontro tra le religioni per la pace. Un discorso di amplissimo respiro quello di Francesco, che punta innanzitutto sull’educazione «perché non vi sarà pace senza un’educazione adeguata delle giovani generazioni. E non vi sarà un’educazione adeguata per i giovani di oggi se la formazione loro offerta non sarà ben rispondente alla natura dell’uomo».
Un’educazione che diventa sapienza quando è in grado di trarre da ciascuno il meglio, quando riesce a far superare la tentazione di irrigidirsi o chiudersi in se stessi, quando sa guardare al passato perché «dal passato impara che dal male scaturisce solo male e dalla violenza solo violenza, in una spirale che finisce per imprigionare».
Parla di dialogo, papa Francesco, di un camminare insieme «nella convinzione che l’avvenire di tutti dipende anche dall’incontro tra le religioni e le culture». Dialogo e incontro che hanno tre pilastri fondamentali: «Il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione».
Francesco ribadisce concetti a lui cari ricordando che «l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è l’inciviltà dello scontro. E per contrastare veramente la barbarie di chi soffia sull’odio e incita alla violenza, occorre accompagnare e far maturare generazioni che rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente crescita del bene: giovani che, come alberi ben piantati, siano radicati nel terreno della storia e, crescendo verso l’Alto e accanto agli altri, trasformino ogni giorno l’aria inquinata dell’odio nell’ossigeno della fraternità».
Bergoglio auspica che questa civiltà dell’incontro possa sorgere proprio qui, in Egitto, «da questa terra, baciata dal sole». E chiede l’intercessione di «san Francesco di Assisi, che otto secoli fa venne in Egitto e incontrò il Sultano Malik al Kamil».
Terra baciata dal sole, terra di alleanze dove « lungo i secoli, le differenze di religione hanno costituito «una forma di arricchimento reciproco al servizio dell’unica comunità nazionale. Fedi diverse si sono incontrate e varie culture si sono mescolate, senza confondersi ma riconoscendo l’importanza di allearsi per il bene comune. Alleanze di questo tipo sono quanto mai urgenti oggi».
Il Papa usa «come simbolo il “Monte dell’Alleanza” che si innalza in questa terra. Il Sinai ci ricorda anzitutto che un’autentica alleanza sulla terra non può prescindere dal Cielo, che l’umanità non può proporsi di incontrarsi in pace escludendo Dio dall’orizzonte, e nemmeno può salire sul monte per impadronirsi di Dio».
Punta il dito contro il paradosso che vuole, da un lato relegare la religione nel privato e, dall’altro, confonderla con la politica. «Esiste il rischio», dice papa Francesco, «che la religione venga assorbita dalla gestione di affari temporali e tentata dalle lusinghe di poteri mondani che in realtà la strumentalizzano».
Occorre alzare lo sguardo, ricordare le dieci parole date da Dio all’uomo sul monte Sinai. «Al centro delle “dieci parole” risuona, rivolto agli uomini e ai popoli di ogni tempo, il comando “non uccidere”». E sono i responsabili delle religioni chiamate a dare seguito a questo comandamento, «noi» dice ancora il Papa, «siamo chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura all’Assoluto. Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la dignità umana e contro i diritti umani, a portare alla luce i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a condannarli come falsificazione idolatrica di Dio: il suo nome è Santo, Egli è Dio di pace, Dio salam. Perciò solo la pace è santa», ripete come già aveva fatto partecipando all’incontro Popoli e religioni convocato ad Assisi lo scorso anno, «e nessuna violenza può essere perpetrata in nome di Dio, perché profanerebbe il suo Nome».
Il Papa, interrotto più volte dagli applausi dei presenti chiede di ripetere insieme, «da questa terra d’incontro tra Cielo e terra, di alleanze tra le genti e tra i credenti, un “no” forte e chiaro ad ogni forma di violenza, vendetta e odio commessi in nome della religione o in nome di Dio. Insieme affermiamo l’incompatibilità tra violenza e fede, tra credere e odiare. Insieme dichiariamo la sacralità di ogni vita umana contro qualsiasi forma di violenza fisica, sociale, educativa o psicologica. La fede che non nasce da un cuore sincero e da un amore autentico verso Dio Misericordioso è una forma di adesione convenzionale o sociale che non libera l’uomo ma lo schiaccia. Diciamo insieme: più si cresce nella fede in Dio più si cresce nell’amore al prossimo».
E non c’è solo la denuncia del male. «Senza cedere a sincretismi concilianti, il nostro compito è quello di pregare gli uni per gli altri domandando a Dio il dono della pace, incontrarci, dialogare e promuovere la concordia in spirito di collaborazione e amicizia», sottolinea Francesco, E aggiunge: «Come cristiani, io sono cristiano, non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio».
Tuona contro la corsa agli armamenti, «a poco o nulla serve alzare la voce e correre a riarmarsi per proteggersi» e ricorda che «oggi c’è bisogno di costruttori di pace non di armi, di costruttori di pace non di provocatori di conflitti; di pompieri e non di incendiari; di predicatori di riconciliazione e non di banditori di distruzione».
Denuncia i populismi e le demagogie, «che certo non aiutano a consolidare la pace e la stabilità:
nessun incitamento violento garantirà la pace, ed ogni azione unilaterale che non avvii processi costruttivi e condivisi è in realtà un regalo ai fautori dei radicalismi e della violenza». E spiega che «
per prevenire i conflitti ed edificare la pace è fondamentale adoperarsi per rimuovere le situazioni di povertà e di sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono, e bloccare i flussi di denaro e di armi verso chi fomenta la violenza. Ancora più alla radice, è necessario arrestare la proliferazione di armi che, se vengono prodotte e commerciate, prima o poi verranno pure utilizzate. Solo rendendo trasparenti le torbide manovre che alimentano il cancro della guerra se ne possono prevenire le cause reali. A questo impegno urgente e gravoso sono tenuti i responsabili delle nazioni, delle istituzioni e dell’informazione, come noi responsabili di civiltà, convocati da Dio, dalla storia e dall’avvenire ad avviare, ciascuno nel proprio campo, processi di pace, non sottraendosi dal gettare solide basi di alleanza tra i popoli e gli Stati».