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sabato 12 ottobre 2024
 
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Il Papa: «La fede si trasmette senza violenze e imposizioni»

27/07/2022  Sul lago di Sant'Anna il Pontefice ricorda la saggezza delle nonne, che sono madri due volte, e che insegnano a credere con la propria lingua e la propria saggezza. E prega perché si possano risanare le ferite provocate dalle conversioni forzate.

Un pellegrinaggio antico che, con gli anni, è diventato quello in onore di Sant’Anna. Il «Lago di Dio “ o Lago dello Spirito”, in seguito intitolato alla madre di Maria, è sempre stato considerato dalle popolazioni indigene un luogo di guarigione. Il Papa vi si avvicina al suono dei tamburi e fa il segno della croce verso i quattro punti cardinali secondo l’usanza degli indigeni. Poi, dopo le letture, pronuncia l’omelia che parte proprio dal suono che lo ha accompagnato fin dall’inizio del suo viaggio in Canada.

«Questo battito dei tamburi mi sembrava echeggiare il battito di molti cuori: i cuori che, nei secoli, hanno vibrato presso queste acque; i cuori di tanti pellegrini che hanno scandito insieme il passo per raggiungere questo “lago di Dio”! Qui si può veramente cogliere il battito corale di un popolo pellegrino, di generazioni che si sono messe in cammino verso il Signore per sperimentare la sua opera di guarigione», dice papa Francesco. «Quanti cuori sono giunti qui desiderosi e ansimanti, gravati dai pesi della vita, e presso queste acque hanno trovato la consolazione e la forza per andare avanti! Ma qui, immersi nel creato, c’è un altro battito che possiamo ascoltare, quello materno della terra. E così come il battito dei bimbi, fin dal grembo, è in armonia con quello delle madri, così per crescere da esseri umani abbiamo bisogno di cadenzare i ritmi della vita a quelli della creazione che ci dà vita. Riandiamo così oggi alle nostre sorgenti di vita: a Dio, ai genitori e, nel giorno e nella casa di Sant’Anna, ai nonni, che saluto con grande affetto».

Questo luogo, sottolinea il Papa, ci aiuta a tornare «alle fonti della fede. Ci permette infatti di peregrinare idealmente fino ai luoghi santi: di immaginare Gesù, che svolse gran parte del suo ministero proprio sulle rive di un lago, il Lago di Galilea. Lì scelse e chiamò gli Apostoli, proclamò le Beatitudini, narrò il maggior numero di parabole, compì segni e guarigioni. Ora, quel lago costituiva il cuore della “Galilea delle genti”, una zona periferica, di commercio, dove confluivano svariate popolazioni». Un luogo distante geograficamente e culturalmente dalla purezza religiosa di Gerusalemme. «Possiamo dunque immaginare quel lago, chiamato mare di Galilea, come un condensato di differenze: sulle sue rive si incontravano pescatori e pubblicani, centurioni e schiavi, farisei e poveri, uomini e donne delle più variegate provenienze ed estrazioni sociali. Lì, proprio lì, Gesù predicò il Regno di Dio: non a gente religiosa selezionata, ma a popolazioni diverse che accorrevano da più parti come oggi, a tutti e in un teatro naturale come questo. Dio elesse quel contesto poliedrico ed eterogeneo per annunciare al mondo qualcosa di rivoluzionario: “porgete l’altra guancia, amate i nemici, vivete da fratelli per essere figli di Dio, Padre che fa splendere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”». Il Papa ricorda che «proprio quel lago, “meticciato di diversità”, divenne la sede di un inaudito annuncio di fraternità; di una rivoluzione senza morti e feriti, quella dell’amore. E qui, sulle rive di questo lago, il suono dei tamburi che attraversa i secoli e unisce genti diverse, ci riporta ad allora. Ci ricorda che la fraternità è vera se unisce i distanti, che il messaggio di unità che il Cielo invia in terra non teme le differenze e ci invita alla comunione, a ripartire insieme, perché tutti siamo pellegrini in cammino».

E le acque, ricordano le letture, «“danno la vita” e “risanano”. Danno la vita. Penso alle nonne che sono qui con noi: carissime, i vostri cuori sono sorgenti da cui è scaturita l’acqua viva della fede, con la quale avete dissetato figli e nipoti. Mi colpisce il ruolo vitale delle donne nelle comunità indigene: occupano un posto di rilievo in quanto fonti benedette di vita non solo fisica, ma anche spirituale. E, pensando alle vostre kokum, ripenso anche alla mia nonna. Da lei ho ricevuto il primo annuncio della fede e ho imparato che il Vangelo si trasmette così, attraverso la tenerezza della cura e la saggezza della vita. La fede raramente nasce leggendo un libro da soli in salotto, ma si diffonde in un clima familiare, si trasmette nella lingua delle madri, con il dolce canto dialettale delle nonne. Mi scalda il cuore vedere qui tanti nonni e bisnonni. Vi ringrazio e vorrei dire a quanti hanno anziani a casa, in famiglia: avete un tesoro! Custodite tra le vostre mura una sorgente di vita: prendetevene cura, come dell’eredità più preziosa da amare e custodire».

Ma anche risanano. «Questa sera», continua il Pontefice, «immaginiamoci attorno al lago con Gesù, mentre Lui si avvicina, si china e con pazienza, compassione e tenerezza, guarisce tanti malati nel corpo e nello spirito: indemoniati, lebbrosi, paralitici, ciechi, ma anche persone affrante e sfiduciate, smarrite e ferite. Gesù è venuto e viene ancora a prendersi cura di noi, a consolare e risanare la nostra umanità sola e sfinita».

Tutti abbiamo bisogno della guarigione di Gesù. Per questo, il pellegrinaggio porta sulle sponde del mare di Galilea a chiedere a Dio di guarire le nostre ferite. Su queste sponde «ti portiamo le nostre aridità e le nostre fatiche, i traumi delle violenze subite dai nostri fratelli e sorelle indigeni. In questo luogo benedetto, dove regnano l’armonia e la pace, ti presentiamo le disarmonie delle nostre storie, i terribili effetti della colonizzazione, il dolore incancellabile di tante famiglie, nonni e bambini. Aiutaci a guarire le nostre ferite. Sappiamo che ciò richiede impegno, cura e fatti concreti da parte nostra; ma sappiamo pure che da soli non ce la possiamo fare. Ci affidiamo a Te e all’intercessione della tua madre e della tua nonna», dice il Papa.

E ricorda che sono «le madri e le nonne aiutano a risanare le ferite del cuore. Durante il dramma della conquista, fu la Madonna di Guadalupe a trasmettere la retta fede agli indigeni, parlando la loro lingua e vestendo i loro abiti, senza violenze e senza imposizioni. E poco dopo, con l’arrivo della stampa, vennero pubblicate le prime grammatiche e i primi catechismi in lingue indigene. Quanto bene hanno fatto in questo senso i missionari autenticamente evangelizzatori per preservare in tante parti del mondo le lingue e le culture autoctone! In Canada, questa “inculturazione materna” è avvenuta per opera di sant’Anna, unendo la bellezza delle tradizioni indigene e della fede, e plasmandole con la saggezza di una nonna, che è mamma due volte. Anche la Chiesa è donna, è madre. Non c’è infatti mai stato un momento nella sua storia in cui la fede non fosse trasmessa in lingua materna, dalle madri e dalle nonne. Parte dell’eredità dolorosa che stiamo affrontando nasce dall’aver impedito alle nonne indigene di trasmettere la fede nella loro lingua e nella loro cultura. Questa perdita è certamente una tragedia, ma la vostra presenza qui è una testimonianza di resilienza e di ripartenza, di pellegrinaggio verso la guarigione, di apertura del cuore a Dio che risana il nostro essere comunità. Ora tutti noi, come Chiesa, abbiamo bisogno di guarigione: di essere risanati dalla tentazione di chiuderci in noi stessi, di scegliere la difesa dell’istituzione anziché la ricerca della verità, di preferire il potere mondano al servizio evangelico».

Francesco ricorda la gente semplice che si affollava attorno a Gesù portandogli «i propri bisogni e le proprie ferite. Similmente, se vogliamo prenderci cura e risanare la vita delle nostre comunità, non possiamo che partire dai poveri, dai più emarginati. Troppo spesso ci si lascia guidare dagli interessi di pochi che stanno bene; occorre guardare di più alle periferie e porsi in ascolto del grido degli ultimi; saper ascoltare il dolore di quanti, spesso in silenzio, nelle nostre città affollate e spersonalizzate, gridano: “Non lasciateci soli!”. È il grido di anziani che rischiano di morire da soli in casa o abbandonati presso una struttura, o di malati scomodi ai quali, al posto dell’affetto, viene somministrata la morte. È il grido soffocato di ragazzi e delle ragazze più interrogati che ascoltati, i quali delegano la loro libertà a un telefonino, mentre nelle stesse strade altri loro coetanei vagano persi, anestetizzati da qualche divertimento, in preda a dipendenze che li rendono tristi e insofferenti, incapaci di credere in sé stessi, di amare quello che sono e la bellezza della vita che hanno. Non lasciateci soli è il grido di chi vorrebbe un mondo migliore, ma non sa da dove iniziare».

Dobbiamo chiederci se siamo in grado, anche noi, di dissetare i fratelli se, «mentre continuiamo a chiedere consolazione a Dio, sappiamo anche darne agli altri». Perché accade che «ci liberiamo da tanti pesi interiori, per esempio dal non sentirci amati e rispettati, proprio incominciando ad amare gli altri gratuitamente. Nelle nostre solitudini e insofferenze Gesù ci spinge a uscire, a dare, ad amare. E allora, mi chiedo: che cosa faccio io per chi ha bisogno di me? Guardando alle popolazioni indigene, pensando alle loro storie e al dolore che hanno subito, che cosa faccio per loro le popolazioni indigene? Ascolto con un po’ di curiosità mondana e mi scandalizzo per quanto accaduto in passato, oppure faccio qualcosa di concreto per loro? Prego, incontro, leggo, mi documento, mi lascio toccare dalle loro storie? E, guardando a me stesso, se mi trovo nella sofferenza, ascolto Gesù che mi vuole portare fuori dal recinto della mia insofferenza e mi invita a ripartire, ad andare oltre, ad amare? A volte, un bel modo per aiutare un’altra persona è quello di non dargli subito ciò che chiede, ma di accompagnarla, di invitarla ad amare, a farsi dono. Perché è in questo modo che, attraverso il bene che potrà fare agli altri, scoprirà i suoi fiumi di acqua viva, scoprirà il tesoro unico e prezioso che è».

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