Papa Francesco, a Santa Marta, torna parlare della figura del prete. Dopo aver indicato, a Bozzolo e Barbiana, la strada di don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, additandoli alla Chiesa – non per caso parlando nella chiesa di don Primo Mazzolari - come modelli di “preti non clericali”. Il risultato è un ritratto del buon pastore con tre caratteristiche: «appassionato, capace di discernere e di denunciare».
«Il pastore», dice papa Francesco, è «appassionato,fino al punto di dire alla sua gente: “Io provo per voi una specie di gelosia divina”». E cita un «passo del sesto capitolo del Deuteronomio, quando Mosé dice al popolo: “Il vostro Dio, che sta in mezzo a noi, è un Dio geloso”». «Allo stesso modo la gelosia divina di Paolo» porta l’apostolo delle genti «a questa pazzia, a questa stoltezza. È un uomo appassionato. È questo che chiamiano “zelo apostolico”: Non si può essere un vero pastore senza questo fuoco dentro. Anche arrivando a qualche pazzia, qualche stoltezza».
Passando alla seconda caratteristica, il Papa definisce l’apostolo «un uomo che sa discernere, dove ci sono i pericoli, dove ci sono le grazie... dove è la vera strada». Il pastore vero «accompagna le pecore sempre: nei momenti belli e anche nei momenti brutti, anche nei momenti della seduzione», portandole «con la pazienza all’ovile».
Infine “la terza caratteristica” è «la capacità di denunciare. Un apostolo non può essere un ingenuo: “Ah, è tutto bello, andiamo avanti, eh?, è tutto bello... Facciamo una festa, tutti... tutto si può...”». Anche «perché c’è la fedeltà all’unico sposo, a Gesù Cristo, da difendere. E lui sa condannare» con «quella concretezza» che gli permette di «dire: “questo no”, come i genitori dicono al bambino quando incomincia a gattonare e va alla presa elettrica a mettere le dita: “Questo no! È pericoloso!”». Con la consueta adesione alla vita quotidiana il Papa si rivede bambino, in dialetto piemontere: «mi viene in mente tante volte quel tuca nen» (non toccare) che i suoi genitori e nonni gli «dicevano in quei momenti dove c’era un pericolo». Questo per dire che «il buon pastore sa condannare, con nome e cognome».
E questo proposito, prima di pregare per i pastori perché sappiano seguire le tracce indicate, ha ricordato la franchezza di don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani omaggiati e accolti il 20 giugno, nella visita a Bozzolo e a Barbiana: «L’altro giorno, quando sono andato ai posti di quei due bravi pastori italiani. A Barbiana ho visto che il parroco insegnava ai suoi ragazzi. E aveva un motto un po’ pericoloso, contrario a quello che si usava in quel tempo: I care. Voleva dire “mi importa”: insegnava che le cose si dovevano prendere sul serio, contro il motto di moda in quel tempo che era “non mi importa”, ma detto in altro linguaggio, che io non oso qui» ripetere (il riferimento è al motto fascista «me ne frego»).
E in tal modo don Milani «insegnava ai ragazzi ad andare avanti. Prenditi cura della tua vita, e “Questo no!”: saper denunciare quello che va contro la tua vita». Mentre, ha ammonito il Pontefice, «tante volte perdiamo questa capacità di condanna e vogliamo portare avanti le pecore un po’ con quel buonismo che non solo è ingenuo: non va. E fa male. Quel buonismo dei compromessi, per attirarsi l’ammirazione o l’amore dei fedeli lasciando fare».