Surreale. Siamo seduti sulla terrazza più in del Lido, quella dell'hotel Excelsior, dove si svolgono le interviste importanti. Il regista Peter Landesman, un ragazzone americano di 48 anni intelligente, passato dal reportage di guerra (l'ultimo in Ruanda) alla cinepresa, sta spiegando come mai abbia scelto di raccontare ancora una volta l'evento che cinquant'anni fa cambiò la storia del mondo.
Quel pomeriggio del 22 novembre 1963, sull'anonimo tavolo del pronto soccorso dell'ospedale Parkland di Dallas, a morire non fu solo John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti, ma il sogno progressista di tutto l'Occidente libero. Parkland, questo il titolo della pellicola che vedremo a novembre nei nostri cinema, racconta proprio quei quattro giorni fatidici mettendo da parte dietrologie, polemiche, ricostruzioni di complotti per portare in primo piano le persone comuni che si trovarono, loro malgrado, catapultate dalla quotidianità nella Storia con la s maiuscola. Il tono è accorato “perché la verità più vera”, dice il regista, “è quella che viene fuori dalle voci di coloro che non amano comparire, che si ritraggono di fronte a taccuini e microfoni. Perfino quel giorno. Testimonianze che da decenni erano lì, alla portata di tutti, ma a cui nessuno finora aveva dato importanza”.
Difficile da credere, se non fosse che in quel preciso momento la routine un po' dandy delle interviste viene infranta dall'irrompere sulla terrazza di otto uomini in grigio dal rude cipiglio. Sono la scorta del ministro Cécile Kyenge, venuta alla Mostra per spezzare l'ennesima lancia in favore dell'integrazione razziale nel nostro Paese mercè, anche, la settima arte. L'atmosfera rilassata entra in fibrillazione. Il ministro è stato bersaglio di pesanti minacce, i poliziotti in borghese sono tesi, anche perché con la signora ministro ci sono le bellissime figlie adolescenti (una sembra la controfigura di Beyoncé).
Galoppa la fantasia. E se qualcuno compisse ora un attentato? Cosa raccontare dopo? Più facile adesso immaginare come si possano essere sentiti, cinquant'anni fa, il giovane medico e l'infermiera che si videro portare davanti il corpo esanime del presidente Kennedy. E quel sarto, Abraham Zapruder, che con la cinepresa super 8 fece il filmato poi trasmesso dalle Tv di mezzo mondo. Per non parlare di Robert, fratello dell'omicida Lee Oswald, uomo perbene catapultato nell'assurdo. O della loro esagitata madre, che neppure di fronte all'uccisione del figlio, tre giorni dopo, seppe resistere alla smania di protagonismo.
“Nel mio film la prospettiva è totalmente nuova”, puntualizza Landesman.
“Anche perché non si sfornano giudizi, ma ci si limita alla cronaca dei
fatti così come si svolsero. Portando però in primo piano le emozioni e
i sentimenti delle persone comuni”.
E' proprio ciò che certi critici, con il senno di poi e con la
puzza sotto al naso, rimproverano al regista. Accusa rispedita al
mittente. “Per mezzo secolo, l'assassinio di Kennedy è stato fonte di
speculazioni e oggetto di ricostruzioni più vicine alla fantapolitica
che alla realtà. Ho passato al setaccio le carte e non esiste la minima
prova, sono illazioni costruite sulla sabbia. E, francamente, sono cose
che non interessarono coloro che in quei giorni si ritrovarono in balìa
di eventi enormi. Il film copre solo l'arco di tempo di quel terribile
weekend, dagli spari al funerale di stato di Kennedy, svoltosi mentre
nessuno voleva dare cristiana sepoltura al corpo di Oswald, il reprobo”.
Insomma, sullo schermo scorrono le altre storie, quelle minuscole
che fecero da sfondo a ciò che tutto il mondo poté vedere in Tv. Quale,
però, la scintilla che ha fatto scattare nel regista la voglia di
rischiare? “La mia esperienza di reporter. Oggi giornali e Tv non sono
più interessati a finanziare le grandi inchieste, anche per i costi
enormi di un giornalista o di un operatore sul teatro di guerra”, dice
Landesman. “Il cinema, invece, ti permette di raccontare ciò che ritieni
importante senza dipendere dagli altri. Una volta c'era la macchina per
scrivere, poi è venuto il computer. Oggi, il racconto si fa con le
immagini”.