Non è preoccupato dalle dichiarazioni di Donald Trump e non si fa illusioni sul processo di pace. Monsignor Pierbattista Pizzaballa, origini bergamasche, 51 anni, frate minore francescano in Terra Santa da 27 anni, già Custode e oggi amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, è convinto che «con Trump o un’altra amministrazione non cambia nulla. I cambiamenti sul territorio ci saranno quando le due parti – israeliani e palestinesi – vorranno realmente, e non soltanto virtualmente, incontrarsi per arrivare a un accordo. E, ahimè, non vedo questo nella prospettiva del breve e medio periodo. Il cambiamento dell’amministrazione negli Stati Uniti ha mutato il discorso e il dialogo, soprattutto con Israele. Ha cambiato le terminologie, ma la sostanza del territorio è sempre la stessa». Il presidente americano, per la prima volta pubblicamente, ha parlato della possibilità di un solo Stato per la Terra Santa. La prospettiva internazionale invece, e anche quella del Vaticano, è sempre stata quella di due Stati per due popoli
È solo un cambiamento di linguaggio?
«Bisognerebbe chiederlo alla nuova amministrazione, perché non si riesce a capire attraverso i messaggi Twitter qual è la politica di uno Stato, ci vuole qualcosa di più serio. La soluzione dei due Stati è quella internazionalmente riconosciuta, se c’è un cambiamento reale nella politica, fino alla visione statunitense, lo vedremo più avanti. In ogni caso il negoziato di pace, diciamo la verità, è fermo da anni, non ha molto senso parlarne, è una grande ipocrisia, non c’è nulla a riguardo. E con la politica degli insediamenti che continua diventa sempre più difcile portare avanti questa idea dei due popoli e due Stati».
Circa gli insediamenti il Governo Netanyahu sembra aver preso più coraggio, con l’appoggio di Trump. È così?
«Non c’è un grande cambiamento. La politica degli insediamenti sta continuando e continuerà così come c’era anche con Obama. Forse il linguaggio è diverso, ma la sostanza sul territorio è sempre la stessa».
Che conseguenze potrebbe avere l’annunciato spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme?
«Sarebbero sicuramente gravi. Penso che ci sarebbe una risposta molto dura da parte dei Paesi arabi e dei Paesi islamici e anche una reazione molto forte qui nel territorio. Questa decisione, che però mi sembra rimandata, solleverebbe un mare di difficoltà sia a livello internazionale sia locale».
Auspicate un intervento della comunità internazionale?
«Certamente la comunità internazionale ha un ruolo importante per tenere alta l’attenzione. In questo momento il conflitto israelo-palestinese è messo in secondo piano rispetto ai drammi ben più gravi che ci sono attorno a noi – pensiamo alla Siria e all’Iraq –, ma è importante riportare la questione al centro dell’attenzione internazionale».
L’Europa vi ha dimenticati?
«Mi sembra molto ripiegata su sé stessa e sui suoi problemi. Ha attenzione verso l’arrivo dei profughi, ma soltanto per le conseguenze che gli arrivi possono avere sul continente. Non guarda alle cause di questi spostamenti, alle grandi crisi politiche e sociali».
Lei è stato uno dei fautori dell’incontro per la pace in Vaticano con Peres e Abu Mazen. Rispetto a quelle grandi speranze ci sono stati dei passi indietro?
«No, quel gesto era e resta importante. Bisognerà farne altri anche in futuro perché abbiamo bisogno di gesti esteriori grandi che ci facciano vedere che è possibile parlarsi, incontrarsi. Nessuno si faceva illusioni allora – e nemmeno oggi – che sarebbe scoppiata la pace. La pace la devi costruire passo dopo passo, poco alla volta nella formazione e nell’educazione soprattutto delle nuove generazioni. Non si è tornati indietro. Ci sono e ci saranno alti e bassi, come sempre, ma quel gesto non voleva segnare un cammino di pace, un percorso, voleva dare un’indicazione di metodo. Questa indicazione resta valida ancora oggi».
La “diplomazia della misericordia” del Papa, che ha dato frutto in altri posti, qui si sente di meno?
«La misericordia non fa chiasso. Si guarda sempre alla grande politica, ma bisogna guardare anche alla vita della gente. Qui sicuramente c’è tantissima violenza, la si respira ovunque, ma sarebbe ingiusto limitarsi a parlare solo di questo. Ci sono moltissime associazioni, movimenti, gruppi, famiglie, persone normali, semplici che hanno fatto della misericordia il loro stile di vita. Persone che si mettono in gioco per aiutare i disabili, nelle scuole, negli ospedali. Nelle diverse realtà del territorio si incontra tanta gente che si spende per gli altri e che non permette alle proprie ferite e al proprio dolore di diventare un criterio di lettura della vita del mondo. Ecco, qui davvero c’è la misericordia».
Continua l’esodo dei cristiani?
«Purtroppo sì. Non con le percentuali elevate che ci sono in Siria e in Iraq, però l’esodo è continuo e inesorabile, soprattutto da parte della classe media. Non sono i poveri ad andarsene, ma coloro che hanno la maggiore visibilità pubblica, gli insegnanti, gli avvocati… Non credo alla scomparsa denitiva della presenza cristiana qui. Temo, però, una sempre minore visibilità. E non basta esserci, bisogna avere anche qualcosa da dire e da proporre alla società».