In Parlamento si sta discutendo
del diritto all’identità personale
con riferimento alle disposizioni
che regolano il parto in anonimato.
In questo senso puntano una sentenza
della Corte costituzionale (278 del
2013) e una decisione della Corte europea
dei diritti dell’uomo (25 settembre
2012).
È importante sottolineare che il
diritto all’anonimato è volto a tutelare
il diritto alla vita del nascituro che altrimenti
potrebbe essere, tragicamente,
esposto a morte prima della nascita mediante
l’aborto o appena nato mediante
l’abbandono in un cassonetto dei rifiuti.
Va da sé che è in gioco anche la salute
della madre, che potrebbe altrimenti essere
minacciata da un parto privo di assistenza
sanitaria e dunque anche la sua
serenità nel momento di dare alla luce il
proprio figlio o la propria figlia.
In questa
prospettiva non si può non cogliere
il gesto di amore (doloroso, certo, ma
sempre di amore si tratta) di una mamma
che, rendendosi conto di non poter
“tenere” il bambino una volta nato, lo
affida all’amore di altre persone.
Il timore che l’indebolimento dell’anonimato
possa mettere in pericolo la
vita dei nascituri o dei neonati ha effettivamente
un qualche fondamento. Chi
può dire che cosa avviene nell’animo di
una donna che vive una situazione esistenzialmente
difficile e complicata, relativamente
a una gravidanza in corso,
se le viene tolta la sicurezza del “segreto”
e della collaborazione per mantenerlo?
Come dunque bilanciare il diritto
al segreto e il diritto alla conoscenza?
Tra le proposte anche quella di avviare
due liste di attesa parallele riguardanti
rispettivamente la richiesta dei figli che
desiderano conoscere le proprie origini
e la revoca dell’anonimato da parte delle
madri che avevano partorito dichiarando
di non voler essere nominate. La
coincidenza tra richiesta e revoca farebbe
scattare la possibilità dell’incontro.
Merita sottolineare che non c’è contraddizione
tra le condizioni legali poste
al diritto a conoscere le proprie origini
da parte di un figlio non riconosciuto
e l’affermazione secondo cui la fecondazione
eterologa (ricorso ai gameti di
persone diverse dagli aspiranti genitori
sociali) dovrebbe essere accompagnata
in ogni caso dal diritto dei figli a conoscere,
se lo desiderano, chi sono i propri
genitori naturali.
Occorre, infatti, tenere conto della
profonda differenza tra le due situazioni.
Nel caso del concepimento di un figlio mediante il ricorso ai gameti di “donatori”
o “donatrici” per soddisfare il
desiderio degli adulti ad avere il “bambino
in braccio”, il figlio è “programmato”
in partenza con una genitorialità
“scissa”.
Nel campo dell’eterologa, il diritto
a conoscere la propria vera genealogia
emerge, perciò, in tutta la sua pienezza
e non si vede perché – se non per
la ragione pratica e utilitaristica di facilitare
l’offerta di gameti – dovrebbe essere
sacrificato. Si aggiunga che l’anonimato
nel campo dell’eterologa si presta a coprire
un sistema di commercializzazione
e di selezione eugenetica, mentre il
diritto a conoscere le proprie origini è in
linea con un sistema di trasparenza che
dovrebbe impedire, o quanto meno scoraggiare,
abusi e traffici.