«Se Cristo non è risorto, vuota è
la nostra predicazione, vuota
anche la nostra fede» (1Corinzi
15,14). Queste parole di san
Paolo sono come l’epigrafe ideale che dovremmo
incidere sul tempio spirituale della
Pasqua che celebriamo alle soglie dell’Anno
della fede voluto da Benedetto XVI. Proprio
per questo vorremmo proporre ai nostri lettori
una riflessione teologica, cioè un impegno
di approfondimento attorno al cuore della fede
cristiana.
Partiamo, allora, da quell’alba di una primavera
tra il 30 e il 33. Tre sono gli elementi
registrati dal racconto evangelico. Ecco innanzitutto
farsi avanti un gruppo di donne, che
per prime incontrano il Cristo risorto. Siamo
di fronte a un dato storico incontrovertibile:
essendo, secondo il diritto semitico, le donne
inabilitate alla testimonianza valida, giuridica
o storica, gli evangelisti non avrebbero
mai “inventato” una simile attestazione, affidata
a persone “incapaci” di testimoniare, se
essa non fosse stata nella nuda e semplice
realtà dei fatti.
Veniamo, così, al secondo dato: la pietra
che sigillava l’apertura della tomba – secondo
la rilevazione attestata da quelle donne – giace
ribaltata. L’evangelista Giovanni aggiunge
una nota ulteriore sull’interno di quel sepolcro
così come appare a un teste successivo, Pietro:
«Vide i teli posati là e il sudario, che era
stato posto sul capo di Gesù, non posato là
con i teli ma avvolto in un luogo a parte»
(20,6-7). Dunque, una tomba vuota che conserva
le tracce di un morto che ormai non è
più presente.
Ecco, infine, il terzo elemento narrato dai
Vangeli, una visione, cioè un’esperienza trascendente,
rappresentata da una figura angelica
che proclama le stesse parole del successivo
Credo cristiano: «È risorto!». Una formula che
ha lo scopo di spiegare quella tomba vuota.
Siamo, a questo punto, nel cuore del problema
che suscita un grappolo di domande alle
quali potremo dare ovviamente solo un abbozzo
di risposta (biblioteche intere di storiografia,
esegesi e teologia lo hanno già fatto in
modo ben più sistematico). Che senso ha
l’espressione «risorto dai morti»?
Innanzitutto sottolineiamo che per il Nuovo
Testamento la misteriosa vicenda finale di
Cristo non può essere ricondotta alla rianimazione
pura e semplice di un cadavere, come
quelle compiute da Gesù nei confronti di Lazzaro
(Giovanni 11) e del figlio della vedova di
Nain (Luca 7,11-17). Ora, noi siamo di fronte a
un evento che ha contorni verificabili storicamente
(la tomba vuota, i lini abbandonati, la
testimonianza delle donne) ma il cui nucleo
ha però una dimensione ulteriore più alta.
C’è, dunque, certamente il ritorno alla vita
di Gesù morto, ma ciò che accade in quell’atto
non è descritto dai Vangeli (lo faranno gli apocrifi
con racconti grandiosi che sono rimasti
nelle rappresentazioni artistiche e nell’immaginario
popolare).
Nella risurrezione di Cristo
si ha una trasformazione che pervade il corpo
di Gesù ma che incide anche su tutto l’essere e
sulla storia. La divinità, l’eterno e l’infinito, attraverso
Cristo, Figlio di Dio, penetrano nella
realtà intera dell’umanità e nell’essere cosmico
trasfigurandoli; è una sorta di irradiazione
che feconda di eternità il nostro tempo.
Ora, per esprimere questo evento che incide
nella storia in modo non soltanto episodico
ma radicale, il Nuovo Testamento è ricorso
a due linguaggi che cercano di esprimere ciò
che è di sua natura un “mistero”, ossia una
realtà superiore all’orizzonte umano ma non
irrazionale.
Il primo è quello della risurrezione, un linguaggio
già noto all’Antico Testamento: basterebbe
leggere il capitolo 37 di Ezechiele ove,
in una visione surreale, il profeta descrive lo
Spirito creatore di Dio che ritesse su una distesa
di scheletri la carne della vita, dando origine
a un immenso popolo vivente.
Il Nuovo Testamento esprime la risurrezione
di Cristo con il verbo eghéirein, “risvegliare”
dalla morte, simbolicamente intesa come
un sonno, oppure con il verbo anístemi, “levarsi,
sorgere in piedi”. Dietro il velo del linguaggio
simbolico si vuole indicare che Gesù
come vero uomo passa attraverso il segno radicale
dell’umanità, il morire, “risvegliandosi”
alla vita divina che gli appartiene e che ora
pervade la morte, vincendola.
C’è, però, un altro linguaggio, caro a Giovanni,
a Luca e a Paolo, che è definito di esaltazione
o glorificazione ed è espresso con il verbo
greco hypsoùn, “innalzare, elevare”, e con
immagini di ascensione verso l’alto. Basterebbe
citare due frammenti giovannei: «Come
Mosè innalzò nel deserto il serpente, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo...
Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti
a me» (3,14; 12,32). Oppure basterebbe rievocare
il racconto dell’ascensione al cielo ribadito
da Luca nel finale del suo Vangelo
(24,50-53) e in apertura alla sua seconda opera,
gli Atti degli Apostoli (1,6-12). Il senso del
linguaggio è chiaro. Con la “risurrezione” si affermava
che il Gesù storico e il Cristo risorto
sono la stessa persona; con l’ “esaltazione” si
celebra la gloria divina del Risorto e la novità
del suo presentarsi a noi.
Infatti, venendo in mezzo a noi, Gesù è
divenuto in tutto simile a noi; con la morte
egli conclude la sua parabola storica. Con
la Pasqua egli è “esaltato”, cioè rientra nel
mondo divino a cui appartiene come Figlio
di Dio, attirando a sé quell’umanità che
aveva assunto incarnandosi per condurla
alla gloria. Questo è nitidamente dichiarato
nell’inno che Paolo incastona nella sua
Lettera ai Filippesi (2,6-11): «Cristo, pur essendo
di natura divina, svuotò sé stesso assumendo
la condizione di servo (...), facendosi
obbediente sino alla morte e alla morte
di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e
gli ha dato un nome che è sopra ogni altro
nome (...). Così che nel nome di Gesù ogni
ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e
sotto terra».
Quanto accade nella risurrezione di Cristo
è, dunque, un evento complesso, accuratamente
rappresentato dai Vangeli. È un evento
che si radica nel tempo e nello spazio, cioè
nella morte e in una tomba, e che perciò ammette
una verificabilità storica. Esso, però,
fiorisce nell’eterno e nel divino, ed è per questo che esige un’analisi nella fede e nella teologia.
Nelle sue Lettere di Nicodemo (1951) lo
scrittore polacco cattolico Jan Dobraczynski,
morto nel 1994, fa una considerazione che
potremmo porre a suggello del nostro particolarissimo
e limitato itinerario nell’orizzonte
pasquale cristiano: «Vi sono misteri nei
quali bisogna avere il coraggio di gettarsi,
per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua,
certi che essa si aprirà sotto di noi. Non
ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali
bisogna prima credere per poterle capire?».
I racconti evangelici pasquali sono prima
di tutto testi di fede, ma per questa via
aprono la ricerca di una comprensione che
sia anche razionale e storica. Il credere e il
comprendere s’intrecciano in modo complesso
e delicato e costituiscono la struttura
fondamentale della teologia cristiana.
Un filosofo, il gesuita Xavier Tilliette, nella
sua opera la Settimana santa dei filosofi
(1992), scriveva che «la filosofia deve arrestarsi
alla soglia delle apparizioni pasquali,
al Sabato santo. Essa non deve testimoniare
la Gloria. Occorre mantenere castamente
la propria frontiera».
Certo, la filosofia e la storiografia non
possono appropriarsi delle vie della grazia
e della fede. Tuttavia questo non impedisce
alla fede di agganciarsi alle vie della ragione
e alla ragione di guardare oltre le sue
frontiere. Scriveva sant’Agostino: «Chiunque
crede pensa e pensando crede... La fede
se non è pensata è nulla».
Card. Gianfranco Ravasi
presidente del Pontificio
consiglio della cultura
«La “porta della fede” (cfr At 14,27) che
introduce alla vita di comunione con Dio
e permette l’ingresso nella sua Chiesa
è sempre aperta per noi». Si apre con
queste parole la Lettera apostolica
in forma di motu proprio Porta
fidei con la quale Benedetto XVI
indice l’Anno della fede. Ed ecco come
il Pontefice scandisce il calendario
e spiega le ragioni di questo anno
speciale. «Esso avrà inizio l’11 ottobre
2012, nel cinquantesimo anniversario
dell’apertura del concilio Vaticano II,
e terminerà nella solennità
di Nostro Signore Gesù Cristo Re
dell’Universo, il 24 novembre 2013».
Oltre al cinquantesimo anniversario
dell’inizio del concilio Vaticano II, il
Papa ricorda un’altra data significativa:
«L’11 ottobre 2012 ricorreranno anche
i vent’anni dalla pubblicazione del
Catechismo della Chiesa cattolica,
promulgato dal mio predecessore,
il beato papa Giovanni Paolo II. Questo
documento, autentico frutto del
concilio Vaticano II, fu auspicato dal
Sinodo straordinario dei vescovi del
1985 come strumento al servizio della
catechesi e venne realizzato mediante
la collaborazione di tutto l’episcopato
della Chiesa cattolica. E proprio
l’Assemblea generale del Sinodo
dei vescovi è stata da me convocata,
nel mese di ottobre del 2012, sul tema
de La nuova evangelizzazione per
la trasmissione della fede cristiana.
Sarà quella un’occasione propizia per
introdurre l’intera compagine ecclesiale
a un tempo di particolare riflessione
e riscoperta della fede».
Benedetto XVI invita la Chiesa intera
a promuovere durante l’Anno della fede
C’è un momento nella vita in cui
ci ritroviamo nudi dinanzi a noi
stessi. Ci guardiamo allo specchio,
come se ci vedessimo per la prima
volta. Ascoltiamo la nostra voce più
profonda. E sentiamo di dover far chiarezza
su quelle domande fondamentali che
abbiamo sempre rinviato. Per omissione,
indifferenza, paura. Il transito storico
che stiamo vivendo, confuso e vuoto
di riferimenti, alimenta questa urgenza.
Ferruccio Parazzoli, viaggiatore
di lungo corso sulle strade dello spirito
e dell’interrogazione che salda il cielo alla
terra, ha avvertito quest’imperativo. È sceso
sul terreno con il quale un po’ tutti, o prima
o dopo, facciamo i conti. La fede. Sulla quale
ha basato la sua vita di uomo e di scrittore: «Per non uscire di scena, quando accadrà,
senza avere avuto il coraggio e l’onestà
non tanto di capire cosa sia rimasto di quella
fede, ma quale sia davvero la tua fede,
spoglia, drammatica, sia pure aggrappato a
una zattera, al posto di tutto un imponente
vascello, paludato di verità ormai ingestibili».
Non è stato facile per lui, non è semplice
per chi legge Eclisse del Dio Unico
(Il saggiatore), dove racconta la sua avventura
interiore che è confessione, indagine sui
confini estremi, denuncia, lacerazione,
richiesta. La cosa certa, per liberare subito il
campo da letture in superficie o strumentali,
è che non ha «abbandonato il cristianesimo»,
come è stato scritto. Non ha vissuto una
conversione alla rovescia. Certo, narrare Dio,
protagonista assoluto del suo libro, chiede
quel silenzio discreto e, a tratti, la pagina
bianca che può suscitare il sospetto di una
cancellazione. «Non si può avere fretta
di parlare di Dio. Se cediamo troppo presto
alla tentazione di ricorrere a un Dio, sia pure
eclissato, rischiamo strade senza uscita».
E aggiunge: «La fede in Cristo – poiché
questo è il cristianesimo – è per me
irrinunciabile. Vorrebbe dire altrimenti
che la mia vita, oggi, in questo stesso
momento, non ha più senso».
Che il Dio Unico, ebraico-cristiano, sia
diventato una Presenza sfocata che non
interessa più, lo avvertiamo tutti. Nel
privato, come nel pubblico. Lo stesso
Benedetto XVI ha parlato di una «stanchezza
del credere» che ha portato a quel
nichilismo di massa che Parazzoli individua
come «l’incapacità dell’uomo occidentale
di “prendere parte”, di rischiare su qualcosa
d’assoluto, sul sì o sul no. In passato il
silenzio di Dio provocava la rivolta, oggi crea
l’indifferenza. Chi ancora crede non osa dire:
e Dio dov’era quando... Gli è stato insegnato
che un uomo di fede questa domanda non
se la pone. La maggioranza, non si pone
nemmeno più il problema della fede.
Che
c’entra mai quel tale Dio nella nostra vita,
quel Vecchio Dio che ci arriva da quel libro
remoto, che si chiama Bibbia? Quel Dio tace,
andiamo avanti, non venite a disturbarci,
la vita è già difficile così com’è!».
Ma Dio non si arrende. È in agguato sulle
nostre strade. Ci aspetta perché lo
rintracciamo nella sua Presenza in ogni
spazio della vita e dell’universo. È impastata
con il nostro corpo e anima.
Ha un’ampiezza
fuori ogni misura umana, imprendibile.
Come di fronte al mistero del male e della
sofferenza, che contrasta con l’idea di bontà,
amore, bellezza che la tradizione ci ha
consegnato. Sempre Benedetto XVI, in visita
ad Auschwitz, sopraffatto da «uno sbigottito
silenzio», ha gridato: «Perché Signore hai
taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto
questo? Non permettere mai più una cosa
simile». E invece Auschwitz ha continuato
a moltiplicarsi in Cambogia, in Argentina,nella ex Jugoslavia, in Ruanda,
in tante stragi di oggi.
Ma è proprio il suo apparire in ogni cosa
a renderlo “inevitabile”. C’imbattiamo
di continuo in lui, come nell’aria che
respiriamo. «Il mondo nel suo presente, nella
sua dinamicità è la rappresentazione stessa
di Dio, è la vita stessa di Dio». Per incontrarlo
dobbiamo metterci in gioco, “sporcarci
le mani” nel rischio del dubbio, superare
la paura di lasciare il certo per l’incerto.
Creare un approccio nuovo, a cominciare
dal linguaggio, incapace di verticalità come
di abissi, mediatico e autoreferenziale.
L’uomo d’Occidente, abbandonata la
dimensione metafisica, parla solo di sé
stesso.
Non c’è più preghiera, come non c’è
rivolta. La stessa Chiesa, per prima, sembra
avere perso la forza di un linguaggio vivo,
che superi la difesa delle istituzioni, per
diventare profetico. Conclude Parazzoli: «Non
ha bisogno, per essere presente, di uomini
sconfitti e rassegnati. Ma del Cristo vittorioso
che scavalca il sepolcro, come nel dipinto
di Piero della Francesca. Il Risorto, anche
se non sappiamo, per quanto osiamo tuttavia
dire quando diciamo Risurrezione. Non
un Cristo strumento di un disegno previsto
e prevedibile, per rimettere le nostre colpe
e quelle dei nostri Padri a costo della propria
vita. Egli si offre come Dio che può risorgere,
allora e oggi, solo con la risurrezione di
Cristo. Per poter donare il Regno dell’amore
a quel mondo, basato sulla sopraffazione e
sulla violenza che lo ha eclissato. È dunque il
Cristo Risorto che dobbiamo accogliere e che
accolgo. E se questo è un rischio, ben venga
il rischio. “Non so altro”, come diceva Paolo».