Goma, Repubblica democratica del Congo
Paul ha 15 anni, ma ne aveva 11
quando è stato reclutato a forza. Per tre anni ha combattuto con i
ribelli delle
Fdlr (Forze democratiche per la liberazione del Ruanda)
e per un anno con un altro gruppo, chiamato
Nyatura.Siamo a
Goma, lembo orientale della
Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Rwanda.
Una terra
senza pace. Da metà luglio sono ripresi gli scontri fra truppe
governative e i ribelli dell'M23: l'ultima fiammata di una guerra che
– tra alti e bassi – dura da decenni.
E che ha provocato, secondo le stime, la morte
di circa dieci milioni di persone, il numero più alto dopo la
Seconda Guerra mondiale.
Ma vittime sono anche le donne
violate e costrette a periodici esili,
gli anziani e i malati senza
assistenza, i bambini senza scuola e senza i più elementari diritti.
Tra loro, i bambini soldato. Li abbiamo incontrati al
centro Ngangi
dei salesiani, alle porte di Goma. Sono ospiti della sovraffollata
struttura da un anno, da quando han dovuto scappare dagli scontri,
sfollati tra gli sfollati.
Sono una dozzina, ora, presi in
carico dal servizio Giustizia e Pace della Caritas locale. Molti
altri avrebbero bisogno di cure, ma non ci sono fondi e non ci sono
spazi sufficienti. E così
si accolgono solo i casi più gravi.
Come quello – appunto – di
Paul
(nome di fantasia), che sente rumori, si sente perennemente inseguito
e si mette a correre, oppure lancia pietre alla gente per “salvarsi”.
Soffre di incubi notturni ma anche da sveglio i ricordi del male
commesso lo perseguitano. Soffre di idrofobia, ha paura delle chiese,
dove si rifiuta di entrare, e dei cimiteri.
Vede all'improvviso delle
fiamme che gli arrivano addosso.
"Occorre aiutarli ad affrontare e superare i traumi"
«Si
tratta di flash legati a quanto ha commesso mentre era soldato» ci
spiega Pascal
Bashume, psicologo clinico che ha in carico i ragazzi «l'idrofobia
gli viene dal ricordo delle persone uccise e gettate nei fiumi; la
paura delle chiese è legata a una strage di persone riunite per il
culto, a cui lui aveva partecipato. Ricorda le uccisioni, le donne
rapite per il comandante, il villaggio a cui hanno dato fuoco, di cui
rivede le case bruciate... Spesso rievoca il suo capo, che lo
minacciava e lo trattava male: Paul un giorno, esasperato, lo ha
ucciso. E così, se da un lato è preda di incubi e fobie, dall'altro
continua la tendenza alla violenza, si scontra spesso con gli altri,
si batte e si trova a suo agio solo quando vede scorrere il sangue».
Qui ci sono solo i casi più gravi,
gli altri stanno in altri quattro “Centri di transito e
orientamento” distribuiti in vari villaggi della diocesi di Goma.
Il dottor Bashume li cura al meglio delle sue possibilità,
aiutandoli ad affrontare e superare i traumi, ad accettare quanto
vissuto, a ritrovare la normalità e a riconciliarsi con se stessi e
coi rimorsi.
Il programma, coordinato da don Jean
Paul Mihigo Nizey, prevede il reinserimento dei bambini nelle
famiglie d'origine, ma il percorso è arduo, perché spesso i
genitori rifiutano di accogliere chi si è macchiato di colpe tanto
gravi. Per questo il programma della Caritas di Goma prevede un
lavoro anche con le famiglie e un reinserimento graduale e assistito
nel tessuto sociale e se possibile anche a scuola. I progetti
sarebbero tanti, sarebbe utile poter insegnare un mestiere ai
ragazzini, per evitare che, non accolti e senza impiego, ricadano
preda dei gruppi armati.
Lo psicologo che lavora in un container
Ma si lavora tra mille difficoltà:
«Abbiamo iniziato nel febbraio 2012 in un bel centro a Rutshuru –
città ora in mano ai ribelli –, dove avevamo un edificio
(realizzato grazie alla Caritas del Nordest, all'ong Acs e alla
Cooperazione italiana) e molto spazio anche per lavori manuali, che
per questi ragazzi sono terapeutici. Ma dopo soli tre mesi abbiamo
dovuto scappare. E da un anno siamo qui, ospiti, in attesa di trovare
una sistemazione meno precaria».
L'ufficio del dottor Bashume è in un
container. Mentre parliamo, mostra sul suo portatile il lavoro che fa
con i ragazzi, ma a metà il Pc si spegne: la batteria è esaurita e
nel container non c'è modo di ricaricarla. Si lavora come si può.
Il programma è stato sostenuto nel
2012 dalla Caritas del Triveneto, ma ora sono alla ricerca di altri
donatori. Ogni volta che dall'Unicef e da altri soggetti arrivano
bandi, sottopongono il loro progetto, in fiduciosa attesa di poter
presto ospitare altri bambini che hanno urgente bisogno di cure.