Per ricostruire la tragica vicenda di Paul Getty e del suo sequestro avvenuto il 10 luglio del 1973, occorre fare un passo indietro al periodo in cui, tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, fiorì in Italia quella che i media, ancor prima che gli studiosi dei fenomeni criminali e mafiosi in particolare, hanno definito “L’industria dei rapimenti”. Secondo quanto ricostruisce John Dikie, storico inglese, in Mafia Republic, i sequestri di persona a scopo di estorsione in Italia sono stati in due decenni circa 650.
Si tratta di un reato particolarmente odioso che in quel periodo è stato utilizzato da soggetti diversi: terrorismo interno – soprattutto rosso -, criminalità comune – il banditismo dell’Anonima sarda – ma soprattutto criminalità organizzata. Pur con significative differenze tra le due, il sequestro a scopo di estorsione era diventato in quegli anni infatti uno dei modi con cui Cosa Nostra siciliana e la ’Ndrangheta calabrese, talvolta connesse in una reciproca convenienza criminale, realizzavano velocemente profitti. Ma se per Cosa nostra il sequestro era stato il mezzo per rimpinguare velocemente le casse dei boss prosciugate dalle detenzioni seguite alla prima guerra di mafia ed era utilizzato anche a scopo per così dire “politico”, per modificare gli equilibri di potere dentro l’organizzazione, per la 'Ndrangheta era stato fin dalla fine degli anni Sessanta una “specialità”, favorita dalla presenza delle complicità locali e dalla conformazione del territorio dell’Aspromonte in cui non era troppo difficile nascondere un ostaggio.
Il sequestro di Paul Getty III, sedicenne residente a Roma con la madre e nipote del petroliere americano con cittadinanza irlandese Jean Paul Getty, divenne emblematico al punto che a Bovalino, sulla costa ionica della Calabria, si indicava informalmente un quartiere con il suo nome. Il ragazzino, giovane, aria da hippy, capelli rossi, venne sedato e caricato su un’auto all’alba nel centro di Roma. Dopo una lunga attesa arrivò alla famiglia la richiesta di un riscatto di 2 miliardi di lire presto elevati a 10 (5 milioni di euro). Il nonno, Jean Paul Getty, sulle prime rifiutò di trattare con i sequestratori, spiegando che aveva 14 nipoti, se avesse pagato anche un solo centesimo glieli avrebbero rapiti tutti. Ma l’organizzazione aveva metodi convincenti e feroci, il 20 ottobre spedì al Messaggero un pezzo d’orecchio tagliato al ragazzo, minacciando che se non avessero pagato sarebbe arrivato il resto a pezzettini. Poco tempo dopo arrivò al Tempo la prova dell’esistenza in vita: una foto del ragazzo vivo con l’orecchio mozzato. Il riscatto, circa un quinto di quanto chiesto all’inizio, fu consegnato e il ragazzo fu rilasciato. Ma l’esperienza lo segnò tragicamente: precipitò nell’abuso di alcol e sostanze, nei primissimi anni Ottanta un ictus lo lasciò paralizzato e quasi cieco. È morto nel 2011 in Inghilterra. Per il sequestro furono condannati due sequestratori, mentre due esponenti dei clan Piromalli e Mammoliti, accusati di essere gli ideatori, uscirono assolti per insufficienza di prove. I collaboratori di giustizia nella 'Ndrangheta erano di là da venire ed era lontanissimo il giorno del 2015 in cui parola 'Ndrangheta, come organizzazione unitaria, sarebbe arrivata per la prima volta in una sentenza definitiva. Fin lì l’esistenza stessa dell’organizzazione andava provata da zero in ogni singolo processo.
Nella “Relazione conclusiva della Commissione antimafia approvata il 7 ottobre 1998, nel punto in cui si cita il sequestro Getty, si legge: «Con i proventi dei sequestri furono comprati camion, autocarri, pale meccaniche e si diede vita alla formazione di ditte mafiose nel campo dell’edilizia le quali parteciparono alle gare per gli appalti pubblici, a cominciare da quelli per la costruzione, mai realizzata, del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro. Un’altra parte di quel denaro, probabilmente la quota più rilevante, fu investita dapprima nel contrabbando delle sigarette estere e successivamente nell’acquisto di droga. La ’Ndrangheta si inserì in quello che era il più grande business mafioso. Il ciclo dei sequestri di persona schiudeva il ciclo del traffico degli stupefacenti. Molte cosche, prima di avviarsi sulla via del grosso traffico internazionale di narcotici, avevano portato a termine proficuamente alcuni sequestri».
“L’industria dei sequestri” è di fatto cessata all’inizio degli anni Novanta con ogni probabilità per il combinato disposto di alcuni fattori tra cui la legge (controversa perché rischiosa per l’ostaggio mentre i sequestri erano in corso) n. 82 del 1991 nota come “blocco dei beni” che impose l’obbligo del temporaneo «sequestro del beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge, e ai parenti e affini conviventi» e la possibilità di un sequestro facoltativo dei beni di «altre persone» se vi fosse stato il «fondato motivo di ritenere che tali beni» potessero essere usati «direttamente o indirettamente, per far conseguire agli autori del delitto il prezzo della liberazione della vittima». Fin lì il blocco dei beni era stato disposto individualmente da alcuni singoli magistrati impegnati in indagini sui sequestri, mentre con la legge lo si rendeva effettivo sempre e si istituiva un coordinamento nelle indagini in modo da collegarne meglio i filoni e intanto si fondava il NAPS, Nucleo Antisequestri della Polizia di Stato. Il blocco dei beni finì per affamare “l’industria” rendendola meno appetibile: un gioco più rischioso a fronte di una rendita divenuta incerta. D’altro canto gli studiosi ritengono verosimile anche che la 'Ndrangheta, giunta all’equilibrio di una pax mafiosa dopo una lunga faida proprio in quel periodo, abbia calcolato che il sequestro, per la sua stessa natura odiosa, avesse il difetto di attirare l’indignazione dell’opinione pubblica e l’occhio dello Stato sulla Calabria e sui suoi criminali, interessati invece a inabissarsi per meglio perseguire i loro loschi interessi nel cono d’ombra, proprio mentre in Sicilia i Corleonesi attiravano su di sé con gli omicidi eccellenti e le stragi l’attenzione e i riflettori.