Armi e preghiera. Dopo l’intervista realizzata da Famiglia Cristiana a monsignor Santo Marcianò, in cui l'ordinario militare descrive natura della missione e attività
sue e dei 166 cappellani che fanno riferimento a lui, interviene don
Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, il movimento
cattolico internazionale per
la pace nato in Francia nel 1945 e da sempre molto attivo anche in Italia (nelle sue fila si sono impegnati, tra gli altri, monsignor Luigi Bettazzi e don Tonino Bello).
Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia.
«Di certo l’argomento è molto
delicato», esordisce don Sacco. «Per prima cosa va ricordato che la posizione di
Pax Christi è quella del 1997, uscita dal convegno alla Casa
della pace di Firenze. Pilastro della nostra riflessione non è tanto
schierarsi contro i cappellani, ci macherebbe, sono nostri fratelli
nella comune fede e, per chi di noi è presbitero, sono nostri fratelli
anche nel sacerdozio, ma contro la
struttura della guerra e la struttura militare. Mi chiedo: perché i
cappellani devono esere così coinvolti in questa struttura? Noi
sosteniamo l’importanza di non essere coinvolti, travolti,
embedded, arruolati con le stellette e lo stipendio. Se il problema
pastorale dei militari resta vivo ancora oggi, perché in questo caso
l’impegno pastorale viene svolto da chi ha gradi e ruoli, che nel
mondo militare sono necessariamente così importanti? L’ordinariato
sostiene che chi svolge l’impegno pastorale da cappellano militare
lo fa da dentro la struttura militare, citando l’esempio degli
insegnanti di religione. Ma un conto è inserirsi in una struttura
educativa come la scuola e un altro è essere inseriti a pieno titolo
in una struttura che fa la guerra. Si cita anche l’esempio di don
Gnocchi, ma oggi è sotto gli occhi di tutti che la guerra non è più
come quella dei tempi di don Gnocchi. Innanzitutto perché non
abbiamo più un esercito di leva; oggi siamo a livello di esercito
professionale, ben pagato, soprattutto se lo si fa all’estero. E poi, sono cambiate anche
le guerre: dov’è il nemico che ci attacca? È forse Gheddafi, o
l’Iraq, o l’Afghanistan?».
In pratica, essendo cambiato moltissimo
rispetto al passato, ecco che voi sostenete una revisione della
figura del cappellano militare…
«Il vero nodo è la struttura di
guerra di cui si fa parte che, per usare parole di Giovanni Paolo II,
è una “struttura di peccato”. Ma potrei ancher citare le parole
che pochi giorni fa ha detto papa Francesco, quando ha nominato
sistemi economici che hanno bisogno di fare la guerra per sussistere
e continuare a vivere. E allora la domanda è: il cappellano militare
cosa fa in tutto questo? Io credo che dovrebbe annunciare il Vangelo
e quindi toccare la coscienza della persona. Di fronte a tutti i
giudizi sulle guerre e sulle armi c’è la parola che viene dal
Vangelo: non uccidere. E allora, di fronte all’ordine del pilota
che deve andare su un aereo a colpire un obiettivo, l’educazione
alla coscienza qual è? Quella di obbedire a un ordine o quello della
coscienza che dice: io non devo uccidere?».
La figura del cappellano diventa, in
questo modo, un’anomolia, allora…
«Il comandamento che dice: non
uccidere è antipatriottico e qui si pone la nostra questione. Se una
persona è all’interno di una situazione così complicata - ma in
modo libero - può fare qualcosa. Se, invece, è un graduato deve sottacere
alla logica di comando perché è all’interno di una spirale ben
precisa. Il soldato semplice vede in un cappellano un graduato».
Insomma, un ruolo con delle contraddizioni…
«Io come parroco posso essere
salutato quando vado in piazza da alcuni e ignorato da altri. Nel
momento in cui, invece, non saluto il cappellano che passa nel
piazzale dove siamo acquartierati, di fatto non ho salutato un
superiore e quindi non c’è più il rapporto pastorale perché è
viziato da un ruolo di gradi, stipendio, stellette. Il vero nocciolo
è questo: come porre la propria coscienza, all’interno di questa
situazione, con un mondo che cambia. Noi ne abbiamo parlato dal 1997
in poi . Nel mese di novembre dello scorso anno la rivista Mosaico di pace, un mensile che anche
un sito (www.mosaicodipace.it), ha pubblicato un dossier proprio sui
cappellani militari, titolato Sacedoti, padri e generali, con voci,
le più diverse, che pongono le loro tesi, compresa quella del
generale Fabio Mini. Oggi è il 4 novembre, data che tutti ricordano. ll papa di allora, Bendetto XV, parlò
di inutile strage. Allora come ci poniamo noi di fronte a un’inutile
strage? Di fronte all’inutile strage noi non dobbiamo essere
coinvolti. Da 35 anni sono prete: ho uno stipendio di circa 1.250
euro netti al mese per 12 mesi. Mi piacerebbe sapere quanto prende
un cappellano militare, con la stessa anzianità di servizio...».
«Noi diciamo: chi lavora coi
militari lo faccia, ma entri nel sistema dell’8 per mille come un
prete qualsiasi e invece di lavorare col catechismo in parrocchia
lavori nelle caserme. Insomma, direi che c’è un problema
territoriale su cui si può discutere. Laddove ci sono le caserme, si
deve studiare come fare la pastorale. E poi: io mi ritengo un prete
ricco, perché oggi con questa crisi che attanaglia tutti, prendendo
1.250 euro al mese circa mi ritengo fortunato. I cappellani hanno
tutto spesato. Se venissero inseriti anche loro nel nostro sistema
dell’8 per mille vivrebbero come me decorosamente. Il problema,
poi, è anche quello dei gradi: se si riuscissse entrare non da
capitano o da vescovo, come un generale, ma al livello minimo, allora
già le cose cambierebbero. Chi entra come cappellano nelle carceri
non viene percepito come un superiore. Il carcerato vive il cappellano
non come colui che gli ha comminato la condanna e che fa parte del sistema. Credo che si possano
trovare degli accordi di mediazione per altre strade. L’augurio è
quello di un momento di confronto, un dibattito, un convegno. A tutti
noi stanno a cuore la Chiesa e la pace, però bisogna stare attenti
alle parole: se la guerra la chiamiamo “missione di pace”, allora
vuol dire che qualcosa non funziona. Pax Christi non vuole fare
polemiche interne alla Chiesa ma ci piacerebbe una Chiesa meno
compromessa con le strutture di guerra e quindi se si riuscisse a
fare un convegno, un confronto nuovo, allora sarebbe molto positivo.
In Iraq, dove sono stato più volte, ho incontrato due cappellani statunitensi che
ragionavano come il presidente Bush. Eppure loro erano lì per
ricordare una parola diversa da quella. Io dicevo loro: voi siete nel
mondo ma non siete del mondo. Quindi, siete nell’ambiente militare
ma non siete dell’ambiente militare».
«Come segno positivo e alternativo alla scelta militare», conclude don Renato Sacco, «ricordo che anche
Pax Christi aderisce alla campagna che proprio oggi lanciamo a livello
nazionale: una raccolta di firme a favore di una legge per una difesa
civile non armata e nonviolenta. (www.difesacivilenonviolenta.org)».