Quattro adolescenti di Ciriè (To) tre anni fa vennero condannati a tre anni di lavori socialmente utili, dopo aver bullizzato in più occasioni un coetaneo, costringendolo anche a mangiare un panino farcito con escrementi. Le cronache riportano che fu lo stesso ragazzo vittima a presentarsi, in lacrime, un giorno in questura per sporgere denuncia, senza che nessun altro adulto fosse a conoscenza di ciò che aveva subito.
Dopo tre anni i quattro bulli terminano di scontare la propria pena. Non si sa quali lavori socialmente utili abbiano svolto. Si sa solo che il rito di celebrazione della fine del loro conto con la giustizia è consistito in un video – divenuto virale – in cui hanno insultato e dileggiato gli adulti che si sono fatti carico del rispetto della legge e del loro percorso riabilitativo.
Sconcerta che – a quanto si apprende dalle notizie divulgate dai media – i quattro ragazzi sembrano non avere compreso nulla di ciò che hanno attraversato e nemmeno del significato che il loro percorso di riabilitazione avrebbe dovuto assumere, in questa fase della loro crescita.
Come specialista dell’età evolutiva, rimango interdetto non tanto delle parole e dei gesti che i ragazzi hanno usato per celebrare il loro “fine pena”. Ma del fatto che tali parole e tali gesti siano stati immortalati in un video reso poi pubblico attraverso i loro social.
Azione che li ha resi nuovamente perseguibili dal punto di vista penale con denuncia da parte dei carabinieri per vilipendio delle istituzioni e oltraggio a pubblico ufficiale. Così i quattro giovani dovranno cominciare daccapo tutta la trafila: e può darsi che questa volta la condanna sia ancora più severa.
Com’è possibile che dei giovani, dopo essersi trovati all’interno del circuito penale minorile, dopo essere stati per un tempo consistente seguiti a scopo rieducativo e riabilitativo, non riescano in alcun modo a prevedere che le loro azioni e le loro parole – per quanto depositate nel mondo virtuale – hanno delle conseguenze e producono degli effetti di cui dovranno rispondere in prima persona?
Questa volta anch’io fatico a trovare una risposta. Presumo che nessuno si sia occupato, durante il periodo della pena, di educarli all’empatia e alla responsabilità. Forse, hanno svolto le loro azioni “socialmente utili” con lo stile di chi deve “per obbligo” vidimare un cartellino senza alcun coinvolgimento reale e profondo in ciò che fa. Forse i quattro giovanissimi in questione sono convinti che “continuare” la propria crescita perseguendo la carriera del “prepotente e dannato” possa comunque dare vantaggi e ottimi risultati. In fin dei conti, nei mesi scorsi uno dei personaggi più osannati dai media, uno dei più presenti in tutte le trasmissioni TV è stato proprio Fabrizio Corona, che con lo stesso stile dei quattro impenitenti, ha raccontato quanto è bello e quanto dà popolarità stare nel territorio borderline di chi è nato per “trasgredire le regole”, giustificando il proprio stile e i proprio reati affermando che “ci sono persone che hanno fatto cose molto peggiori di quelle che ho fatto io e sono fuori di galera”.
C’è una progressiva desensibilizzazione al rispetto: rispetto dell’altro, rispetto delle regole, rispetto delle istituzioni. Perfino da chi riveste un ruolo pubblico di alto profilo, sentiamo sempre più utilizzare linguaggio scurrile, assumere toni arroganti e di prepotenza. Per non parlare dell’agone politico, dove ogni giorno assistiamo alla sceneggiata del tutti contro tutti. Ma poi nessuno fa un passo indietro e tutti si tengono stretto tra le mani quel pezzo di potere che non vivono più come un dovere verso chi li ha eletti, ma come un diritto da esercitare senza temere le conseguenze del proprio eventuale pessimo operato. Così la corruzione, la maleducazione, la prevaricazione non solo dilagano, ma sembrano essere divenute un lasciapassare per il successo.
Ai quattro sprovveduti di Ciriè invece l’unico lasciapassare che è stato concesso è quello di ricominciare daccapo a fare i conti con la giustizia. Proprio come dentro al gioco di Monopoli che ogni volta che passi dal via, dopo dieci caselle puoi finire in prigione. E se così succede, devi fermarti per un giro.
Purtroppo, però, la vita non è come una partita di Monopoli. E questo, qualcuno, trovi il modo di spiegarlo a quei ragazzi. Perché dopo tre anni di lavori socialmente utili, non sembra proprio che l’abbiano capito.