«Il legame con la Chiesa e con il popolo congolese ci ha spinti ad andare nel Kivu, che da tanti anni vive il dramma della guerra legata allo sfruttamento delle ricchezze minerarie. Abbiamo voluto metterci in ascolto di tutte le vittime innocenti e, in particolare, di Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu, ucciso il 29 ottobre 1996: un segno luminoso nella lunga notte del Congo, che dà coraggio alla verità e alla pace».
Padre Silvio Turazzi, missionario saveriano, che ha vissuto 18 anni nella Repubblica Democratica del Congo, racconta del pellegrinaggio che si è svolto nella regione orientale del Paese, il Kivu. Al viaggio, guidato da don Tarcisio Nardelli, parroco e direttore del Centro missionario diocesano di Bologna, hanno partecipato 34 persone dai 22 ai 77 anni, di diverse professioni e provenienze.
«Abbiamo attraversato villaggi e città», spiega padre Silvio. «A Mutarule, al confine con il Burundi, era ancora visibile il sangue della strage di venti giorni prima. Trentasette persone massacrate a colpi di machete e di baionette per il controllo del territorio. A Kanyola, abbiamo toccato le piaghe della violenza assurda. La comunità ha costruito il Memoriale sulle cui pareti sono incisi i nomi di centinaia di vittime innocenti. Ci siamo chiesti: “Adamo dove sei? Di quale orrore sei stato capace?” (Gen 3,9, ndr)».
A Goma, capoluogo del Nord Kivu, ci sono 150 mila sfollati (3 milioni nell’est del Congo). Qual è la situazione? «Le persone vivono in tende o in baracche in campi sterminati e polverosi nel quasi totale abbandono. Nei loro occhi abbiamo letto il dolore e lo spaesamento. Abbiamo incontrato famiglie, disabili, pigmei e donne violentate, guidati da padre Pino Locati, un padre Bianco che cerca di fare quello che può per sostenerli. Le autorità hanno stabilito che gli sfollati rientrino nei propri territori, ma come possono fare visto che ci sono gruppi armati che controllano la zona, i loro campi sono stati occupati e senza che ci sia un piano sociale e economico che li supporti?».
Le donne, soprattutto, hanno pagato il prezzo di questa guerra infinita; si parla di 500 mila stupri, un atto feroce che, quando non le uccide, le segna per sempre. «Sì, sono le donne le prime vittime, quelle che sopportano il peso maggiore di una situazione estremamente instabile. In molti posti si sono unite in comitato e hanno cercato mutuo sostegno e vie di pace a livello locale e internazionale. Le donne congolesi, in tutti questi anni, hanno dimostrato di avere una forza e un coraggio straordinari».
Cosa si può fare? Passare dalle parole ai fatti. Smettere il saccheggio del Congo orientale
Qual è stato il pensiero ricorrente durante il percorso? «Abbiamo anche noi qualche responsabilità? Le ricchezze del Paese vengono esportate illegalmente: oro, diamanti, petrolio, legname, e il coltan, l’oro nero dell’elettronica di cui il Congo possiede i tre quarti della riserva mondiale… Dopo la fine ufficiale della guerra, nel 2003, il saccheggio è raddoppiato. Il Ruanda, finanziato dagli Stati Uniti e dall’Occidente per oltre il 40% del suo bilancio nazionale, è il grande esportatore, ma sono coinvolti anche l’Uganda e il Burundi».
Cosa si può fare? «Passare dalle parole ai fatti. Da parte dei singoli sostenendo le iniziative di ricostruzione, sviluppo e riconciliazione della popolazione. Da parte della comunità internazionale una legge sulla tracciabilità delle ricchezze, vera causa della guerra nella regione».