Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
sabato 14 settembre 2024
 
Viaggio nella regione del Kivu
 

Pellegrinaggio tra i dolori del Congo

30/09/2014  Un’iniziativa singolare: portare un gruppo di 34 persone non nei luoghi mariani o a Santiago de Compostela, ma nel cuore dell’Africa, nella regione dei Grandi Laghi. Dove le ingenti ricchezze naturali stridono con l’estrema povertà della popolazione. Dove si trovano le più grandi miniere del mondo del prezioso coltan, ma anche 500 mila donne vittima di stupro.

«Il legame con la Chiesa e con il popolo congolese ci ha spinti ad andare nel Kivu, che da tanti anni vive il dramma della guerra legata allo sfruttamento delle ricchezze minerarie. Abbiamo voluto metterci in ascolto di tutte le vittime innocenti e, in particolare, di Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu, ucciso il 29 ottobre 1996: un segno luminoso nella lunga notte del Congo, che dà coraggio alla verità e alla pace».

Padre Silvio Turazzi, missionario saveriano, che ha vissuto 18 anni nella Repubblica Democratica del Congo, racconta del pellegrinaggio che si è svolto nella regione orientale del Paese, il Kivu. Al viaggio, guidato da don Tarcisio Nardelli, parroco e direttore del Centro missionario diocesano di Bologna, hanno partecipato 34 persone dai 22 ai 77 anni, di diverse professioni e provenienze.

«Abbiamo attraversato villaggi e città», spiega padre Silvio. «A Mutarule, al confine con il Burundi, era ancora visibile il sangue della strage di venti giorni prima. Trentasette persone massacrate a colpi di machete e di baionette per il controllo del territorio. A Kanyola, abbiamo toccato le piaghe della violenza assurda. La comunità ha costruito il Memoriale sulle cui pareti sono incisi i nomi di centinaia di vittime innocenti. Ci siamo chiesti: “Adamo dove sei? Di quale orrore sei stato capace?” (Gen 3,9, ndr)».

A Goma, capoluogo del Nord Kivu, ci sono 150 mila sfollati (3 milioni nell’est del Congo). Qual è la situazione? «Le persone vivono in tende o in baracche in campi sterminati e polverosi nel quasi totale abbandono. Nei loro occhi abbiamo letto il dolore e lo spaesamento. Abbiamo incontrato famiglie, disabili, pigmei e donne violentate, guidati da padre Pino Locati, un padre Bianco che cerca di fare quello che può per sostenerli. Le autorità hanno stabilito che gli sfollati rientrino nei propri territori, ma come possono fare visto che ci sono gruppi armati che controllano la zona, i loro campi sono stati occupati e senza che ci sia un piano sociale e economico che li supporti?».

Le donne, soprattutto, hanno pagato il prezzo di questa guerra infinita; si parla di 500 mila stupri, un atto feroce che, quando non le uccide, le segna per sempre. «Sì, sono le donne le prime vittime, quelle che sopportano il peso maggiore di una situazione estremamente instabile. In molti posti si sono unite in comitato e hanno cercato mutuo sostegno e vie di pace a livello locale e internazionale. Le donne congolesi, in tutti questi anni, hanno dimostrato di avere una forza e un coraggio straordinari».

Cosa si può fare? Passare dalle parole ai fatti. Smettere il saccheggio del Congo orientale

Qual è stato il pensiero ricorrente durante il percorso? «Abbiamo anche noi qualche responsabilità? Le ricchezze del Paese vengono esportate illegalmente: oro, diamanti, petrolio, legname, e il coltan, l’oro nero dell’elettronica di cui il Congo possiede i tre quarti della riserva mondiale… Dopo la fine ufficiale della guerra, nel 2003, il saccheggio è raddoppiato. Il Ruanda, finanziato dagli Stati Uniti e dall’Occidente per oltre il 40% del suo bilancio nazionale, è il grande esportatore, ma sono coinvolti anche l’Uganda e il Burundi».

Cosa si può fare? «Passare dalle parole ai fatti. Da parte dei singoli sostenendo le iniziative di ricostruzione, sviluppo e riconciliazione della popolazione. Da parte della comunità internazionale una legge sulla tracciabilità delle ricchezze, vera causa della guerra nella regione».

 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo