A Sanremo erano passate le dieci, e non usciva. S’erano fatte le undici, e non usciva. Allo scoccare della mezzanotte galleggiava su Internet un’inquietudine leggera: che fine ha fatto Peppe Vessicchio? «Mi sono preoccupato: mi è venuto il dubbio di dover dirigere martedì sera». Il giorno dopo, finalmente, l’agognato annuncio di Carlo Conti: «Dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio». Boato dell’Ariston. «È stato imbarazzante, sul palco c’era un mito come Patty Pravo e la gente applaudiva me. Non mi aspettavo un’accoglienza così».
Diceva Benjamin Franklin che al mondo di sicuro ci sono solo due cose: la morte e le tasse. La terza è Peppe Vessicchio al Festival di Sanremo. Dal 1990 ad oggi sarà mancato al massimo tre volte («non ricordo, i numeri non sono il mio forte», dice), ha “vinto” quattro edizioni (con gli Avion Travel nel 2000, Alexia nel 2003, Valerio Scanu nel 2010 e Roberto Vecchioni nel 2011), e tre volte ha ricevuto il premio come miglior arrangiatore (nel ’94, ’97 e ’98). La sua barba ricorda quella di Giuseppe Verdi e per questo Gigi Proietti si divertì a mettere il suo faccione sulle mille lire. Suo padre lo voleva architetto e invece è diventato compositore e direttore d’orchestra oltre che personaggio televisivo a tutto tondo. E adesso, lui che non è su Facebook e non usa Twitter, anche un idolo della rete con l’hashtag #uscitevessicchio che ha spopolato all’ultimo festival.
Napoletano d’origine, romano d’adozione, 60 anni il 17 marzo, è sposato con Enrica dal 1989 («ma stiamo insieme dal ‘77»), ha una figlia, Alessia, e una nipote, Teresa, di 19 anni. «Gli unici maschi di casa», nota, «siamo io e il gatto che fa il compleanno il mio stesso giorno». L’esordio sul palco di Sanremo risale al 1990, l’anno della riunificazione delle due Germanie, della Prima guerra del Golfo e della morte di Sandro Pertini, Aldo Fabrizi e Greta Garbo.
Un’era fa, Maestro.
«Non eravamo all’Ariston ma al Palafiori. Quell’anno tornò l’orchestra sul palco come la vediamo oggi e i duetti con gli stranieri con super ospite Ray Charles. Io diressi Mia Martini che cantava La nevicata del ’56 che è anche il mio anno di nascita. Mia madre mi raccontava sempre di quell’evento storico perché nevicò anche a Napoli, la mia città».
Che infanzia è stata la sua?
«Spensierata. Sono nato al Rione Cavalleggeri, tra la borghesia di Fuorigrotta e la zona operaia di Bagnoli dove prosperava l’Eternit. Mio padre lavorava lì come impiegato. Io costruivo i miei giocattoli con l’amianto».
A Bagnoli le fibre di amianto hanno ucciso centinaia di persone.
«Molti miei amici d’infanzia non ci sono più».
Lei non ha mai avuto paura d’ammalarsi?
«Quando sei in pace con te stesso e con quello che ti circonda diventi quasi un fachiro, puoi bere un veleno e non subire nessuna conseguenza».
Filosofia napoletana. Il primo incontro con la musica?
«Mio fratello Pasquale in casa strimpellava la chitarra e suonava la fisarmonica e il mandolino. Io, lui e mia sorella animavamo il dopo pranzo domenicale quando a casa nostra arrivavano le sorelle di mio padre».
Il maestro Peppe Vessicchio con la moglie Enrica (a sinistra), la figlia Alessia (a destra) e la nipote Teresa (foto Gloria Fegiz)
Però dopo il liceo si iscrive ad Architettura.
«Ho frequentato per qualche anno con ottimi risultati ma avevo il cuore diviso a metà. Di giorno studiavo, la sera andavo a suonare e frequentavo da uditore il Conservatorio con gente del calibro di Enzo Avitabile, Enzo Amato e Francesco Matrone».
A casa sua vigeva la regola del “pezzo di carta”?
«Sì. Studiare chitarra, all’epoca, faceva guadagnare solo un certificato, non un diploma. Per convincermi mio padre mi diceva che l’architetto, a suo modo, è un’artista».
Non l’ha convinta, a quanto pare.
«Un giorno, avevo 21 anni, mi disse: “Ma se ti laurei, farai mai l’architetto?”. “No”, risposi».
Fine dell’architetto Vessicchio. Le prime esperienze musicali?
«Un giorno mio fratello portò a casa un disco di Antônio Carlos Jobim, uno degli inventori della bossa nova, e rimasi folgorato da quel ritmo armonico. Mi appassionai alla musica brasiliana che ammicca molto a quella napoletana. Prima con il gruppo Aquarius e poi con il trio Vessicchio andavamo a suonare nelle sale da ballo. E poi ho fatto anche cabaret».
Con chi?
«Chiesero a me e Mirko Setaro di supportare degli attori per uno spettacolo di cabaret e nacque così il gruppo dei Rottambuli. Io arrangiavo i pezzi e suonavo. Tra i nostri rivali c’erano Troisi e la sua Smorfia. Poi una ragazza se ne andò e diventammo i Trettré. Alla fine decisi di lasciare il trio perché mi distraeva dai miei obiettivi musicali e loro fecero grande successo a Drive In».
Pentito?
«No, chiesi io di essere sostituito. Sentii che presto sarebbe arrivato qualcosa di importante anche per me».
E chi arrivò?
«Tentai un aggancio con Peppino Di Capri e gli scrissi una canzone, Capri sempre blu, che accettò di cantare».
Fu la svolta?
«No, la svolta arrivò quando incontrai Gino Paoli nel 1983. Fu una stagione fantastica. Riscrivemmo insieme l’arrangiamento de Il cielo in una stanza e poi tante altre canzoni: Averti addosso, Una lunga storia d’amore, Ti lascio una canzone. Poi arrivò Zucchero e via via tutti gli altri: Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni, Andrea Bocelli, Ron. Nel 1986 ho cominciato a lavorare in televisione».
Fino a diventare giudice ad Amici di Maria De Filippi.
«Fino ad allora era più famoso tra le mamme e le nonne, poi divenni celebre anche tra i loro figli e nipoti».
Sanremo 2013, il maestro Vessicchio con Fabio Fazio e Luciana Littizzetto
Le piacciono i talent show?
«McLuhan diceva che la Tv ha un solo scopo: se stessa. La Tv culturale non esiste. Negli ultimi quindici anni da Sanremo, che è la più importante ribalta della musica leggera italiana, non è arrivato nessun giovane interessante. Personaggi come Noemi, Marco Mengoni, Valerio Scanu, Alessandra Amoroso arrivano tutti dai talent show».
Perché a Sanremo non si scovano più talenti?
«Perché oggi comanda la Tv. Tutto quello che arriva dalla Tv è già consacrato e funziona. In passato le case discografiche lavoravano anni su un ragazzo. Ci sono grandi artisti tipo Renato Zero che sono nati così, sperimentando, facendo dischi, magari all’inizio sbagliandoli. Oggi la tendenza è fare un prodotto che non spaventi più di tanto, poco innovativo e che compiaccia le radio».
Che giudizio dà di Pippo Baudo, il grande signore di Sanremo?
«Era il più appassionato alla musica e un grande sperimentatore. Fu lui a portare Elio e le Storie tese nel ’96. Baudo vedeva il Festival come un arcobaleno: al pubblico la scelta del colore preferito».
Carlo Conti?
«Da ex disc-jockey è molto attento ai tempi. Se Baudo è come un fantasioso jazzista disponibile anche all'improvvisazione, Conti è un impeccabile metronomo».
Chi è Peppe Vessicchio?
«Un uomo che si occupa di musica. La musica ci fa bene a prescindere dal fatto che ci piaccia, riesce a dialogare con le nostre cellule, infonde speranza. Me ne accorgo quando la domenica mattina con il mio quintetto d’archi e fisarmonica vado a suonare in ospedali e centri anziani».
Crede in Dio?
«Sì. E credo che tutto quello che riesco a fare non è mio ma è qualcosa che mi viene dato di scoprire».
Ma Dio, secondo lei, è un musicista?
«Molto di più: è il compositore di tutto».
Il suo Sanremo più bello?
«La prima volta che diressi gli Avion Travel nel ‘98 fu molto particolare perché mi lasciarono vestire il loro brano, Dormi e sogna, con tutta la libertà, esattamente come l’avevo immaginato».
E quello più brutto?
«Quando non ci sono stato».
Come passava quella settimana?
«Me ne andavo all’estero in vacanza al sole e lo guardavo in Tv col magone. Sanremo, per me, è un anticipo di primavera. Ogni volta che vado le mimose si schiudono e mi sembra tornare a Napoli, dove sono nato».