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lunedì 10 febbraio 2025
 
Film
 

Il "Fazio" di Montalbano racconta le anime nere della Calabria

23/09/2016  Peppino Mazzotta, noto per il ruolo dell'ispettore Fazio nella fiction, è protagonista di "Anime nere" di Francesco Munzi, stasera in Prima Tv: un «western dei nostri giorni» ambientato nella sua terra d'origine. Pubblichiamo l'intervista avvenuta alla vigilia della presentazione del film durante la Mostra del Cinema di Venezia 2014

Peppino Mazzotta. In alto: una scena di "Anime nere".
Peppino Mazzotta. In alto: una scena di "Anime nere".

Questa volta fa da solo. Difficile immaginare l’ispettore Fazio separato dal commissario Montalbano, ognuno per conto suo. Da lustri fedele collaboratore del commissario, è assoluto protagonista di Anime nere di Francesco Munzi. E c’è da dire che, stavolta, l’allievo supera il maestro. Film bello, aspra morale e gran prova d’attore. Insomma, l’ispettore Fazio è promosso sul campo.

«Per carità, non rinnego nulla della lunga esperienza sul set di Montalbano», sorride Mazzotta, in relax assieme alla compagna Monica su una spiaggia pugliese «In fondo, il regista Alberto Sironi scelse me e gli altri badando proprio alle somiglianze con i personaggi. Tante sono le cose che mi legano a Luca Zingaretti, a Cesare Bocci ovvero Mimì Augello, ad Angelo Russo alias Catarella e agli altri interpreti di questa fortunata serie. Non ultimo il fatto che ci siamo trovati, sconosciuti, quindici anni fa e che oggi abbiamo tutti una nostra conoscibilità. In più, siamo diventati amici veri. Un rapporto che va oltre il piano professionale».

C’è chi la ferma per strada chiamandola Fazio. Un’etichetta che pesa?
«Impossibile non esser grati al personaggio che ti dà successo. È una cosa contro la quale è meglio non lottare. È importante non farsi ingabbiare, altrimenti non fai più nulla. Ecco perché, io che amo il cinema, vorrei farne di più».

Beh, non è che sia sconosciuto sul grande schermo. Dopo aver fatto Cado dalle nubi, pellicola record di Checco Zalone, è stato a Venezia nel cast di Noi credevamo, film risorgimentale di Mario Martone...
«Il salto nella commedia è stato un arricchimento. E a Martone devo tanto, a partire dall’amato teatro: lui e Toni Servillo hanno spesso aiutato i Teatri del Sud, compagnia da me fondata con il drammaturgo Francesco Suriano. «In licenza da Montalbano per tornare nel cuore antico della mia Calabria. Quando però ho letto il copione di Anime nere, ho sentito che dovevo farlo».

Cosa l’ha colpita della storia?
«Ho passato la quarantina ed è un’età strana, in cui metti in discussione un po’ tutto. Anime nere, prendendo a prestito le parole del regista Francesco Munzi, è la storia di una famiglia criminale calabrese. Una vicenda dura che però aiuta a comprendere tante cose del nostro Paese. In una terra dove il richiamo delle leggi del sangue e sentimenti di vendetta possono avere ancora la meglio su tutto. Ma è proprio così?».

Dubita che sia la ’ndrangheta a marchiare a fuoco la Calabria?

«Certo che no, troppe le storie tragiche raccontate dalle cronache. Però in Calabria io ci sono cresciuto davvero, in un paesino di neppure mille anime. Fino ai 19 anni ho aiutato papà Luigi e mamma Iolanda a lavorare la terra e ad allevare gli animali mentre mio fratello più piccolo, Ivan, studiava. Sono andato via per l’università, ho scoperto la recitazione... Ma mi porto dentro le leggi della mia gente, i rituali di famiglia. Un mix di generosità e antichi, secolari riti. Ricordo mia nonna che toglieva il malocchio, “l’affascino”, come diceva lei; gli animali da portare in dono per Natale al prete e al medico. Ma in Calabria ci sono anche cultura, voglia di fare, tante persone perbene».

E anche la criminalità organizzata.
«Vero. Ma mi trovo d’accordo con il regista Munzi che, da romano, è venuto a vivere per un anno ad Africo, centro nevralgico della ’ndrangheta. Una realtà assai complessa. Abbiamo visto la diffidenza trasformarsi in curiosità, le case aprirsi. Abbiamo girato in dialetto, la lingua arcaica dell’Aspromonte. Non ci saremmo riusciti se tanti abitanti non si fossero uniti alla troupe: attori non professionisti, ma dei migliori».

Morale della favola?

«Anime nere è un western dei giorni nostri. La storia di tre fratelli, figli di pastori, che crescono immersi nella ’ndrangheta. La loro anima è scissa tra passato e futuro. Messi da parte crimine, spari e omicidi (nel film ci sono ma senza mai mitizzare la violenza) restano le fragilità di personaggi alle prese con uno scontro generazionale. Perché tradizioni e famiglia possono essere gabbie. Pulsioni che deflagrano secondo gli archètipi della tragedia greca».

Ed ecco che torniamo al teatro...
«La grande passione che dà senso alla mia vita. Assieme al buddhismo».

Come, prego?
«Sono buddhista da vent’anni. I miei genitori sono cattolici convinti. Io invece ho fatto questa scelta, maturata pian piano. Il buddhismo è stato per me un riferimento nei momenti più critici».

Cristianesimo e buddhismo hanno in comune l’aspirazione alla pace, al rispetto reciproco, alla fratellanza.
«Nel vissuto quotidiano, però, io tengo sempre a mente una frase di Gandhi: “Il fine deve conciliarsi con il mezzo”. Concetto rivoluzionario che è l’esatto contrario del principio occidentale secondo cui “il fine giustifica i mezzi”».

Più che una questione di fede, questo è un atteggiamento filosofico...
«Difatti io non sono contro la religione cattolica, anzi. La venuta di papa Francesco ha riacceso in tutti noi la speranza. Credo molto nella sua apertura al dialogo tra tutte le religioni».

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