Peppino Mazzotta. In alto: una scena di "Anime nere".
Questa volta fa da solo. Difficile
immaginare l’ispettore Fazio
separato dal commissario
Montalbano, ognuno per
conto suo.
Da lustri fedele
collaboratore del commissario, è assoluto protagonista di Anime nere di Francesco
Munzi. E c’è da dire che, stavolta, l’allievo
supera il maestro. Film bello, aspra
morale e gran prova d’attore. Insomma,
l’ispettore Fazio è promosso sul campo.
«Per carità, non rinnego nulla della
lunga esperienza sul set di Montalbano», sorride Mazzotta, in relax assieme
alla compagna Monica su una spiaggia
pugliese «In fondo, il regista
Alberto Sironi scelse me e gli altri
badando proprio alle somiglianze con i
personaggi. Tante sono le cose che mi
legano a Luca Zingaretti, a Cesare Bocci
ovvero Mimì Augello, ad Angelo Russo
alias Catarella e agli altri interpreti di
questa fortunata serie. Non ultimo il
fatto che ci siamo trovati, sconosciuti,
quindici anni fa e che oggi abbiamo tutti
una nostra conoscibilità. In più, siamo
diventati amici veri. Un rapporto
che va oltre il piano professionale».
C’è chi la ferma per strada chiamandola
Fazio. Un’etichetta che pesa?
«Impossibile non esser grati al personaggio
che ti dà successo. È una cosa
contro la quale è meglio non lottare. È
importante non farsi ingabbiare, altrimenti
non fai più nulla. Ecco perché, io
che amo il cinema, vorrei farne di più».
Beh, non è che sia sconosciuto sul
grande schermo. Dopo aver fatto Cado
dalle nubi, pellicola record di Checco
Zalone, è stato a Venezia
nel cast di Noi credevamo, film
risorgimentale di Mario Martone...
«Il salto nella commedia è stato un
arricchimento. E a Martone devo tanto,
a partire dall’amato teatro: lui e Toni Servillo
hanno spesso aiutato i Teatri del
Sud, compagnia da me fondata con il
drammaturgo Francesco Suriano.
«In licenza da Montalbano
per tornare nel cuore
antico della mia Calabria. Quando però ho letto il copione di
Anime nere, ho sentito che dovevo farlo».
Cosa l’ha colpita della storia?
«Ho passato la quarantina ed è
un’età strana, in cui metti in discussione
un po’ tutto. Anime nere, prendendo
a prestito le parole del regista Francesco
Munzi, è la storia di una famiglia criminale
calabrese. Una vicenda dura che
però aiuta a comprendere tante cose del
nostro Paese. In una terra dove il richiamo
delle leggi del sangue e sentimenti
di vendetta possono avere ancora la meglio
su tutto. Ma è proprio così?».
Dubita che sia la ’ndrangheta a
marchiare a fuoco la Calabria?
«Certo che no, troppe le storie tragiche
raccontate dalle cronache. Però in
Calabria io ci sono cresciuto davvero, in
un paesino di neppure mille anime. Fino
ai 19 anni ho aiutato papà Luigi e
mamma Iolanda a lavorare la terra e ad
allevare gli animali mentre mio fratello
più piccolo, Ivan, studiava. Sono andato
via per l’università, ho scoperto la recitazione...
Ma mi porto dentro le leggi della
mia gente, i rituali di famiglia. Un
mix di generosità e antichi, secolari riti.
Ricordo mia nonna che toglieva il malocchio,
“l’affascino”, come diceva lei;
gli animali da portare in dono per Natale
al prete e al medico. Ma in Calabria ci
sono anche cultura, voglia di fare, tante
persone perbene».
E anche la criminalità organizzata.
«Vero. Ma mi trovo d’accordo con il
regista Munzi che, da romano, è venuto
a vivere per un anno ad Africo, centro
nevralgico della ’ndrangheta. Una realtà
assai complessa. Abbiamo visto la diffidenza
trasformarsi in curiosità, le case
aprirsi. Abbiamo girato in dialetto, la
lingua arcaica dell’Aspromonte. Non ci
saremmo riusciti se tanti abitanti non
si fossero uniti alla troupe: attori non
professionisti, ma dei migliori».
Morale della favola?
«Anime nere è un western dei giorni
nostri. La storia di tre fratelli, figli di pastori,
che crescono immersi nella
’ndrangheta. La loro anima è scissa tra
passato e futuro. Messi da parte crimine,
spari e omicidi (nel film ci sono ma
senza mai mitizzare la violenza) restano
le fragilità di personaggi alle prese
con uno scontro generazionale. Perché
tradizioni e famiglia possono essere
gabbie. Pulsioni che deflagrano secondo
gli archètipi della tragedia greca».
Ed ecco che torniamo al teatro...
«La grande passione che dà senso alla
mia vita. Assieme al buddhismo».
Come, prego?
«Sono buddhista da vent’anni. I miei
genitori sono cattolici convinti. Io invece
ho fatto questa scelta, maturata pian
piano. Il buddhismo è stato per me un riferimento
nei momenti più critici».
Cristianesimo e buddhismo hanno
in comune l’aspirazione alla pace,
al rispetto reciproco, alla fratellanza.
«Nel vissuto quotidiano, però, io
tengo sempre a mente una frase di Gandhi:
“Il fine deve conciliarsi con il mezzo”.
Concetto rivoluzionario che è l’esatto
contrario del principio occidentale secondo
cui “il fine giustifica i mezzi”».
Più che una questione di fede, questo
è un atteggiamento filosofico...
«Difatti io non sono contro la religione
cattolica, anzi. La venuta di papa
Francesco ha riacceso in tutti noi la speranza.
Credo molto nella sua apertura
al dialogo tra tutte le religioni».