«In curia è un lunedì come tutti gli altri. Il vescovo e i suoi collaboratori stanno sbrigando le pratiche abituali di inizio settimana. Ma un ospite inatteso si palesa improvvisamente nella stanza di Sua Eccellenza. “Buongiorno monsignore, sono Sinodino”». Inizia così il nuovo irriverente libro di Fabio Colagrande, giornalista e conduttore di Radio Vaticana che con il suo Le favolose avventure di Sinodino. Fantacronache degli agguati di un impertinente che vuole svegliare il Sinodo (Àncora, pp. 160, € 15.20) ritrae con umorismo la ricezione – piena o mancata – del messaggio di rinnovamento lanciato da Papa Francesco. A Famiglia Cristiana l’autore ha raccontato come è nato questo volumetto.
Fabio, come le è venuta l’idea per questo libro?
«Diciamo che lo spunto mi è venuto da due occasioni diverse. Innanzitutto, dal mio lavoro di vaticanista: seguendo l’attività del Papa ho cominciato a occuparmi del Sinodo sulla Sinodalità, che mi ha colpito subito per la sua grande volontà di rinnovamento e per l’importanza primaria data all’ascolto del popolo di Dio, cioè di tutti i battezzati. Più avanti, parlando con un collega col quale scrivo sul blog VinoNuovo.it, ho iniziato a chiedermi quanto il Sinodo venisse preso sul serio dagli stessi cattolici; è nata così l’idea di un personaggio che andasse a rompere le uova nel paniere, a stanare certe difficoltà nell’applicare sul serio il metodo dell’ascolto».
Quanto a lungo ci ha lavorato?
«Nell’autunno 2021 ho steso i primi 4 episodi per il blog; quando poi la casa editrice Àncora – per cui avevo già scritto un libro – mi ha chiesto di trasformarli in un volume, li ho usati come racconti iniziali e tra estate e autunno 2022 ho finito di realizzare Le avventure di Sinodino».
L’altro libro di cui parla è Ricordati di sanificare le feste. Fantacronache di rinnovamento pastorale post-pandemia. Qual è il filo conduttore fra le due pubblicazioni, se c’è? E quali invece le differenze di fondo?
«A legare i due libri è il voler raccontare con ironia, con delle fantacronache appunto, una Chiesa che fa fatica a rinnovarsi: in entrambi i casi, infatti, siamo di fronte a situazioni ecclesiali di fantasia (dal retrogusto surreale e giocoso) in cui i tentativi di riforma si scontrano con quelli che io chiamo i “gattopardismi”, ossia con quelle resistenze che si sostanziano in finti cambiamenti. I libri sono poi diversi non solo per il tema, ma anche per lo stile con cui vengono proposti al lettore: in Ricordati di sanificare le feste le fantacronache sono in prosa, mentre ne Le avventure di Sinodino sono in forma di brevi scenette.
A proposito, come mai questa struttura teatrale?
«Per questo libro cercavo l’essenzialità, e la scrittura teatrale me lo ha permesso. Quando ero più giovane ho fatto del cabaret, mentre all’università ho studiato teatro e ho collaborato in maniera amatoriale con una compagnia… diciamo che scrivere dialoghi mi riesce meglio di altre forme di comunicazione. A livello umoristico, poi, la scrittura teatrale funziona bene e dà spazio alla fantasia del pubblico: in ogni battuta mi piace far emergere lo stato d’animo di chi la pronuncia e fare immaginare al lettore la faccia di chi sta parlando».
Ha preso ispirazione da qualcuno per la figura di Sinodino?
«Inizialmente no, lo spunto è stato semplicemente quello di un personaggio che mette in crisi. Man mano che scrivevo, però, l’idea che il personaggio fosse un bambino mi è sembrata ancora più adatta: sono sempre i più piccoli a dire le cose che nessuno ha il coraggio di dire, per via della loro ingenuità, della loro assenza di reticenze e del loro candore. Sul piano stilistico, Sinodino riprende a tratti Gianburrasca – ne combina di tutti i colori – e a tratti, come ha detto un mio amico, uno gnomo, perché è saggio pur essendo piccolo».
Possiamo considerare Sinodino il suo alter ego?
«Sì, con tutta la sua ingenuità e con tutte le cose un po’ scontate che a volte dice, ma che rivelano una certa sfrontatezza. Le sue idee sono le mie, solo che a differenza sua io non posso dirle ad alta voce perché so che potrebbero essere prese male (ride, ndr). È stato un modo per parlare di cose che io vedo chiaramente e di cui secondo me non si tratta abbastanza».
Ha paura che questo libro non venga capito?
«No, mi preoccupo piuttosto di riuscire ad essere leggero, di far sorridere il lettore e di non risultare noioso o banale. Ovviamente, siccome parlo di cose che mi stanno a cuore, spero anche che chi legge rimanga colpito dalle mie riflessioni».
Lei usa l’ironia come chiave di lettura, evitando da un lato la satira feroce, dall’altro il politically correct. Che ruolo gioca l’umorismo nel risvegliare le coscienze?
«Un ruolo importante. Sono convinto che nell’ambito della comunicazione cattolica manchino leggerezza e autoironia: come ho scritto anche in un articolo, l’autoironia è un chiaro segno di capacità di autocritica e di conversione, perché chi sa ridere di sé e della propria comunità ha già fatto un passo verso il rinnovamento. Al contrario, la rigidità è un brutto sintomo di una spiritualità scarsa e di autoreferenzialità. Lo ha detto anche papa Francesco: l’umorismo è una virtù spirituale».