Non ci aspettiamo che nel nostro Paese qualcuno venga ancora costretto a sposarsi contro la sua volontà. Eppure non c'è solo il caso eclatante di Shahnaz Begum, uccisa a sassate dal marito a Novi (Modena) per aver difeso la figlia che si opponeva a un matrimonio imposto. A Carpi nel 2006 si è verificato il suicidio di una donna indiana, mentre in almeno otto casi documentati sono state perse le tracce della vittima.
Il problema, seppure di dimensioni non rilevantissime, esiste e la prospettiva è quella di un suo aumento nel tempo con le giovani immigrate di seconda generazione che non accettano più le imposizioni familiari. Anche in Italia era diffusa, in passato, la pratica dei matrimoni forzati, che oggi si ripropone soprattutto nelle comunità pachistana, indiana, bengalese e maghrebina. La nazionalità non è, però, l’unica variabile da prendere in considerazione. Le differenze fra aree (regioni, città o campagna...), classi sociali e livelli culturali di uno stesso Paese sono, evidentemente, fondamentali.
La pratica dei matrimoni forzati coinvolge oggi, nella sola Italia, tante giovani donne e bambine costrette a subire violenze fisiche e psicologiche, segregazioni, stupri, scompensi psichici e della salute, sequestri e rimpatrio forzato nei Paesi d’origine. A a volte, la morte. Non esiste attualmente un’analisi statistica in grado di quantificarne l’incidenza, ma si tratta di un fenomeno che è ormai molto diffusa in tutta Europa come conseguenza delle forti ondate migratorie.
Nella consapevolezza che siamo di fronte a un fenomeno di violenza di genere, le associazioni ActionAid e Trama di Terre hanno avviato un progetto sperimentale (con il sostegno della Fondazione Vodafone Italia) per comprendere e analizzare il fenomeno. Il progetto si pone l'obiettivo di contrastare il fenomeno dei matrimoni forzati attraverso la creazione di un network nazionale e internazionale tra operatori e organizzazioni che lavorano in questo ambito in modo da condividere best practices e creare nuove metodologie attraverso training formativi rivolti ad operatori pubblici e privati del territorio (mediatrici, operatori sociali e sanitari, educatrici di comunità, insegnanti, corpo di polizia e polizia municipale, magistrati ed avvocati, referenti politici, operatrici casa delle donne).
Anche la politica deve fare la sua parte, ad esempio estendendo l’articolo 18 del “Testo Unico a tutela delle vittime di tratta” anche alle donne costrette ai matrimoni forzati. “Abbiamo scelto di affrontare questo tema come prima sfida nell’ambito della nuova strategia dell’organizzazione, che ci vuole sempre più radicati sul territorio del nostro Paese per combattere le ingiustizie sociali” spiega Sofia Maroudia, Chief of Operation di Action Aid Italia.
Testimonial del progetto è l’attrice Stefania Rocca, appena apparsa sugli schermi in una fiction dedicata al tema della violenza sulle donne. “La battaglia contro la violenza sulle donne è una sfida che da anni ho deciso di portare avanti, in primo luogo, facendo in modo che se ne parlasse al grande pubblico, per superare i tabù. Ma le storie di violenza contro le donne con cui mi è capitato di avere a che fare non sono solo quelle delle fiction: ho conosciuto personalmente donne che le hanno subite. Alcune di queste hanno avuto la forza di reagire e di prendere in mano la propria vita. Molte altre, però, hanno bisogno di supporto per acquisire gli strumenti di consapevolezza e la sicurezza che le può portare fuori dal tunnel.”
Novellara, un paese con 50 nazionalità
Ad oggi una delle fotografie più nitide del problema dei matrimoni forzati è fornito dalla ricerca, intitolata “Per forza, non per amore”, condotta in Emilia Romagna dal Dipartimento di Studi Sociali della facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano per conto dell’associazione Trama di Terre, e conclusasi nel 2008. Nei 33 casi indagati, le principali vittime sono donne, solo tre sono i casi di uomini, mentre i Paesi di provenienza sono Marocco, Pakistan ed India. “È essenziale andare avanti nel contrasto ai matrimoni forzati, cercando di spingere la politica ad azioni mirate a tutelare le giovani donne che ne sono vittime”, afferma Tiziana Dal Pra, presidente e fondatrice di Trama di Terre. “Metteremo al servizio di questo progetto la nostra lunga esperienza su questo tema e cercheremo di dare voce a tutte quelle donne che in questi anni si sono rivolte a noi per essere aiutate e che la politica cerca di ignorare, relegando il problema a una questione di carattere strettamente familiare. Parlarne vuol dire dare la possibilità alle vittime di uscire allo scoperto”.
Non è un caso che il fenomeno sia esploso in Emilia-Romagna, che è tra le regioni che registrano la maggiore presenza di residenti stranieri assoluti in termini d’incidenza sul totale della popolazione. Le quote maggiori si trovano a Reggio Emilia (25,8%) Modena (24,8%), Forlì- Cesena (23,1%), Piacenza (24,5%), Parma e Ferrara (22,6%), Bologna (21,5%), Rimini (20,3%), Ravenna (20,1%).
Raul Daoli, giovane sindaco di Novellara da 8 anni, è uno degli amministratori impegnati in prima persona su questo tema, e almeno una decina di richieste di aiuto sono arrivate a lui direttamente, anche tramite sms: “Dicono che mi portano via, ma io non voglio”. “Non mi fanno andare a ginnastica e alle gite, ma io non voglio sposare chi dicono loro, sono innamorata di Mario e voglio solo lui”. “Le ragazze immigrate di seconda generazione hanno ormai un desiderio di emancipazione che abbiamo in qualche modo trasmesso loro, attraverso l'integrazione e non accettano più mariti imposti. Certo ci vuole coraggio e si rischia molto a ribellarsi, spesso si tratta di tagliare i ponti con la famiglia di origine” racconta Daoli. A Novellara, su 14.000 abitanti gli stranieri sono 2.000, di ben 50 nazionalità, e in alcune scuole primarie i bimbi figli di immigrati sono anche l'80%. “In Canada le scuole fanno della multiculturalità un punto di forza, perché così il bambino impara più lingue. Dobbiamo promuovere anche noi la diversità come cultura e potenziale competitivo socioeconomico, senza ignorare i problemi che possono esserci, come le istanze di libertà che vengono da questi giovani”.
Tante culture, la stessa forma di violenza
In Pakistan il matrimonio combinato fa parte del costume attuale e la separazione tra i sessi nella vita sociale è molto rigida. In questa testimonianza raccolta nella ricerca “Per forza, non per amore” si parla sia di tradizione che di cambiamento. “Un matrimonio da noi è così: nell’80% dei casi è sempre combinato. Sono i genitori che scelgono la persona. Trovare un ragazzo o una ragazza è un ruolo dei genitori, che cercano una ragazza o un ragazzo, sia per un figlio sia per una figlia. Ci sono anche alcuni personaggi che lavorano per trovare, lo sanno come, perché da noi ancora esiste la casta sociale. Quella percentuale che rimane è dei ragazzi che scelgono. Per esempio, quando le ragazze vanno alla scuola, al college, all’università, lì se qualcuno è innamorato non vede la differenza della casta sociale. Non vede tutte le differenze e dice: “Io sono innamorata, mi sposo”. E alcune volte succede che, se sono le ragazze istruite, trovano loro la soluzione. In tanti casi, metà di questi casi, succede che i genitori dicono: “Sì, hanno studiato insieme, si sono innamorati. Si sposano non abbiamo dei problemi”.
La distinzione tra città e campagna è considerata da diverse pachistane intervistate importante nella pratica del matrimonio combinato. “Anche i genitori adesso in Pakistan lo vogliono fino a un certo punto. Ci sono anche quelli che ancora lo fanno, però ci sono anche quelli il cui figlio viene a casa, dice “mi piace” e i genitori vanno a chiedere la mano della ragazza. Però in sostanza è il figlio che dice “a me piace questa ragazza, mi piace quel ragazzo”. Poi si fa tutto in modo formale, vanno i genitori... Vengono coinvolti i genitori. Laddove non sono d’accordo, poi dopo si vede cosa fare”.
Un altro Paese dove, soprattutto nelle aree rurali e nelle famiglie musulmane, si registrano matrimoni combinati è l'Albania. “Non fa tanto la differenza il fattore religioso, se non il fattore proprio dell’albanesità, cioè che sia albanese è quello che va a contare, che non sia italiano. Perché l’immigrazione femminile è indipendente. Arrivano a 18 anni che devono studiare o arrivano anche 20-25 per lavorare”.
Perché deve essere albanese? ”Devono fare dei bambini albanesi. Altrimenti è un tradimento. Non per caso, il mito di Elena di Troia comincia da quelle parti. È vissuto come un tradimento all’albanesità e poi soprattutto è ovvio che poi la famiglia perde tutto il controllo. C’è anche un aspetto positivo, tra virgolette, per come la vedon loro: la famiglia perde tutta la possibilità di controllare e di intervenire, nell’infelicità di un eventuale matrimonio misto”. L’India è un paese immenso abitato da più di un miliardo di persone e le poche testimonianze raccolte non sono assolutamente esaustive, inoltre si riferiscono spesso a famiglie musulmane. Ciononostante altre fonti indicano che in India il matrimonio combinato è praticato come normale, e solo nelle classi medie urbane è diffuso il love-cum-arranged marriage, in cui la coppia di giovani spinge i genitori a proporre loro stessi un matrimonio combinato tra i due, che rifiutano ogni altra proposta. Anche in Africa nera il matrimonio combinato è diffuso. Ma chi emigra qui “fa quello che vuole”, dicono le intervistate, mentre i figli della generazione emigrata sono troppo piccoli per poter capire come si comporteranno i genitori nei loro confronti.