Vivono da sempre ai margini, fra pregiudizi, criminalità e degrado. La stessa parola 'zingari', che per secoli li ha identificati, ispira sospetto. Di solito vengono confinati nelle periferie più squallide e quasi ovunque la loro presenza è vissuta come un problema. A Torino, però, si sta facendo strada una sensibilità diversa.
Tra il dicembre 2013 e il dicembre 2015 è stato realizzato il progetto “La città possibile”, rivolto a circa 1.300 persone (principalmente romeni di etnia rom) che da tempo abitavano nel territorio cittadino (il termine 'nomadi', dunque, non sarebbe appropriato). Questo percorso si è distinto sia per la pluralità di soggetti che ha saputo coinvolgere, sia per l'approccio innovativo. «Non un progetto sui rom, né un progetto per i rom, ma finalmente un progetto con i rom», come ha efficacemente sintetizzato, durante un momento di bilancio, padre Lucian Rosu (comunità ortodossa romena di Torino). Sotto il coordinamento del Comune, si è costituito un tavolo di lavoro che ha coinvolto sei imprese e stipulato accordi con 19 organizzazioni. Tanti, dunque, gli attori: dalla Polizia Municipale alla Croce Rossa, dall'Associazione Italiana Zingari Oggi all'Ufficio Diocesano di Pastorale Migranti, oltre a varie cooperative sociali torinesi e associazioni culturali romene.
L'intervento più significativo ha riguardato circa 800 persone che vivevano in un'area vicina al torrente Stura. Dal 2011 l'insediamento si era progressivamente ingrandito. C'erano più di 170 baracche. Tante le famiglie con bambini piccoli. Le condizioni igienico-sanitarie erano disastrose. Inevitabili le tensioni con i residenti. A differenza di quanto accaduto in altre città, però, qui non c'è stato uno sgombero, almeno non in senso tradizionale: niente ruspe, né azioni di forza. Alle famiglie rom è stato invece proposto di entrare in un “percorso di emersione”. 633 persone hanno accettato. In sostanza hanno sottoscritto un patto: si sono impegnate a evitare qualunque comportamento illegale, a mandare i figli a scuola e a curare i componenti più fragili della loro comunità. In cambio hanno ricevuto servizi: corsi di formazione, attività per la regolarizzazione amministrativa, accompagnamento al lavoro e aiuto nella ricerca di una casa. L'insediamento del lungo Stura è stato gradualmente smantellato e ora l'area è libera.
Quanto alle soluzioni abitative, c'è stata grande creatività: sono state studiate 35 risposte diverse, a seconda delle esigenze specifiche e della composizione della famiglia (dal piccolo alloggio alle esperienze di coabitazione). 42 famiglie hanno scelto il rimpatrio volontario assistito (ecco allora il coinvolgimento delle associazioni romene): alcune sono riuscite a ristrutturare una casa nella loro terra d'origine e a intraprendere piccole attività di artigianato o allevamento. 49 famiglie rimaste in Piemonte hanno invece optato per soluzioni abitative transitorie (come l'housing sociale), 18 famiglie hanno ottenuto un contratto d'affitto. Grazie al progetto sono iniziati 33 tirocini e sono stati stipulati 15 contratti di lavoro. Di sicuro non si è trattato di un percorso lineare. C'è chi ha rifiutato la proposta fin dall'inizio, c'è chi ha provato e non ce l'ha fatta. Non è stato facile tenere insieme tante realtà diverse e, come spesso accade quando si vanno a toccare atavici pregiudizi, non sono mancate critiche e incomprensioni. Ma “La città possibile” ha avuto il grande pregio di aprire una rotta.
A Torino le relazioni dei cittadini con i gruppi rom e sinti sono segnate da alterne vicende. Restano impresse nella memoria le immagini di quella notte di follia del dicembre 2011, quando, a seguito di un presunto caso di violenza sessuale subita da una minorenne (la notizia si rivelò poi falsa) la furia di un intero quartiere si scatenò contro un campo rom, tra baracche incendiate e scene di assurda violenza. Ma Torino sa anche essere una terra accogliente: progetti di integrazione e autonomia esistono fin dagli anni '80. L'attuale arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia, ha dimostrato una speciale sensibilità verso i rom. A loro ha dedicato una lettera pastorale e in più occasioni ha scelto di incontrarli nei loro ambienti di vita.
In conclusione «questo progetto ci ricorda che Torino è una 'città possibile'» ha ricordato il vicesindaco e assessore alle politiche sociali Elide Tisi. «Solo attraverso processi di costruzione di comunità riusciremo a creare gli anticorpi contro l'odio. In questo momento il disagio abitativo che i rom vivono è simile a quello in cui si trovano alcune famiglie italiane. Dobbiamo però evitare che si scateni una guerra tra poveri. Per questo, anche se i progetti e le relative gare d'appalto hanno necessariamente una fine, dobbiamo sforzarci di dare una continuità a esperienze come questa, per lasciare un segno nel tempo e non perdere i risultati fin qui ottenuti».