Il magistrato Giuseppe Lombardo. In copertina: Nino Di Matteo.
Alla domanda di Lombardo risponde senza mezzi termini il suo collega siciliano Nino Di Matteo: «Per lo Stato la vera lotta alla criminalità organizzata non è una priorità, ma oggi, la politica dovrebbe assumersi la responsabilità di considerarla tale».
È un quadro devastante delle istituzioni italiane e della politica, quello che viene tracciato da Lombardo e Di Matteo, che ogni giorno cercano di combattere, con le poche armi che il Governo concede loro, rispettivamente la 'Ndrangheta e Cosa Nostra. Si trovano d'accordo i due Pm, quando dichiarano che è nel Dna della criminalità organizzata – a tutti i suoi livelli – cercare il rapporto con il potere, perché senza quelli i mafiosi sarebbero solo degli «sciacalli».
Le organizzazioni mafiose questa consapevolezza ce l'hanno. I politici italiani no. Sostiene Di Matteo: «Se abbiamo avuto dei risultati, seppur piccoli, non è grazie, ma nonostante la politica». A lui fa eco, Lombardo: «Continuiamo a sottovalutare la potenza della 'Ndrangheta. Il motivo? Perché manca il coraggio sia da parte della politica sia da parte dei cittadini».
Il Pm calabrese va oltre e ricorda che il 26 febbraio 1953 la Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria dichiarò che era evidente il legame tra politica e mafia. «Cosa abbiamo fatto dal '53 a oggi?», tuona Lombardo. «Interroghiamoci su questo, altrimenti ci piace accettare la grande menzogna che la mafia è in ginocchio».
I relatori del convegno di Bergamo.
Ma come fa lo Stato a limitare e, a volte, addirittura a contrastare il lavoro dei magistrati in questa difficile lotta contro la criminalità organizzata? A cominciare è Nino Di Matteo: «Il problema risiede nell'impunità. Troppo spesso gli imputati legati alle cosche mafiose arrivano alla prescrizione e, quindi, non possono venire condannati. È da anni che chiediamo una riforma in quest'ambito. Ma non è mai stata approvata».
Parte della colpa arriva anche alla stessa magistratura. Continua Di Matteo: «Il concorso esterno in associazione mafiosa non è un reato che non esiste. Dobbiamo mettercelo in testa». E sulla magistratura poco incisiva torna anche Lombardo, che in Calabria si trova a dibattersi fra gli stessi problemi di Di Matteo: «La 'Ndrangheta si muove seguendo un disegno ben preciso, acquisire potere di condizionamento. E oggi il non voler considerare questo comportamento come penalmente rilevante, inserendolo nel 416 bis, è un errore, perché sarebbe uno strumento davvero efficace nella lotta alla mafia».
Il problema poi sta anche, secondo i due giudici, nel considerare tutto attraverso numeri e statistiche. È il momento di capire che non per forza vale di più un magistrato che produce più sentenze di altri, ma quel giudice che decide, anche a scapito della sua incolumità, di indagare a fondo negli affari illeciti della politica e delle organizzazioni mafiose.
Per una volta, non si può ridurre tutto a “numeri e statistiche”. Nonostante le istituzioni lascino spesso soli quei magistrati che tutti i giorni combattono la mafia, Di Matteo e Lombardo hanno ancora oggi la forza di non piegarsi, di lottare e di chiedere a gran voce sia alla politica sia ai cittadini di avere coraggio. Perché oggi, quello di cui abbiamo bisogno è una vera cultura antimafiosa e uno Stato più fermo e autorevole.