Noi vecchi barbogi, presto liquidati dai nativi digitali dell’era Google come nostalgici di Gutenberg e delle sue camole, l’abbiamo sempre saputo. Ma adesso che lo ammettono anche loro la soddisfazione lievita. Ebbene sì, pare proprio che anche i ventenni d’oltreoceano siano convinti che ficcare il naso in un libro di carta abbia tuttora un gusto unico.
Va bene va bene, i sondaggi lasciano il tempo che trovano anche quando a condurli sono linguisti della dell’American University di Washington. E sono gli statistici i primi ad ammetterere che i numeri, torturati a dovere, confessano di tutto, però il giochino è divertente.
E siccome noi attempati arnesi, studenti universitari al tempo in cui non c’era alternativa ai fermaporte di carta che alzavano barricate sulle nostre scrivanie, siamo presuntuoselli, ci permettiamo pure di dire che non ci stupisce più di tanto l’esito dell’inchiesta del Washington Post, secondo cui solo il 9% degli universitari americani scalerebbe volentieri la montagna del purgatorio che porta alla conquista della conoscenza su pagine digitali. Mentre gli altri, coetanei loro e dunque nativi digitali, preferiscono tornare alle sudate carte. Indovinate perché.
Primo, perché se si studia su un tablet, tra internet, chat, skype, suoni di notifiche assortite, le distrazioni sono troppe. Secondo perché, se lo strumento di studio prescelto è invece un lettore di ebook, diventa davvero dura esercitare la memoria, senza il soccorso della sua componente visiva, sottoposta a una sorta di deprivazione sensoriale su pagine tutte uguali che non si possono scribacchiare, sottolineare a colori diversi, insomma personalizzare se non nei limiti dello standard consentito. E provate voi a ficcarvi in testa 3.000 pagine di anatomia, 900 di letteratura, 1.400 di procedura penale, se queste pagine sono tutte identiche, senza neanche il soccorso di un recto e di un verso, a distinguere la loro posizione. Provate a ricordarne il contenuto per snocciolarlo a un esame, senza potervi aggrappare a un segnalibro colorato, a una sottolinetura stortignaccola, a un disegnino.
E poi ci sarebbe quell’altra piccola faccenda che notiamo tutti empiricamente, cioè il fatto che su uno schermo si legge più velocemente, il che vale a dire meno profondamente. Può darsi che sia un bene quando si tratta di letture amene, quando tutto sta nel lasciarsi portare via da una storia. Ma quando si tratta di vedersela con il passaggio dal latino ai dialetti del romeno su un manuale di filologia romanza, il problema non è farsi portare via, ma rimanere lì, a consumare quella faccenda faticosa che si chiama studio e che è anche un fatto fisico, molto più fisico della lettura di un romanzo, possibilmente senza che la permanenza si riduca al riscaldamento di un sedile.
Tanto più che, se è vero che per tutti la memoria è un fatto misterioso, soggettivo, personalissimo, è pure vero che alla vetta della conoscenza si approda con una scalata per cui ogni appiglio fa brodo: anche l’orecchio a un post-it arancione a pagina 727, anche una macchia di caffè all’altezza del paragrafo più ostico. Ma se non ci sono appigli è dura: provate a scalare un Everest di vetro senza asperità e senza ventose se vi riesce.
Poi certo, sappiamo anche noi che la tecnologia migliorerà, che questi problemi si risolveranno e che tra qualche generazione sarà tutto diverso e magari migliore.
Più difficile, forse, sarà convincere chi verrà dopo che la tecnologia offre di tutto e di più, meno il senso critico per orientarsi nel suo mare e che per quello toccherà attrezzarsi alla vecchia maniera. Cioè: studiare, studiare, studiare.