La Chiesa, nel suo rapporto con i popoli indigeni presenti in Brasile, si riconosce come “Chiesa indigenista”. Questa espressione significa che la Chiesa difende gli indigeni e i loro diritti, la loro cultura, la loro storia, la loro identità. Nel medesimo significato viene usato l’aggettivo “indigenista”, che compare nella denominazione dell’Ente, assai conosciuto e riconosciuto per la sua azione coraggiosa e instancabile a difesa degli indios, il CIMI (Consiglio Indigenista Missionario) della Chiesa cattolica del Brasile.
Tuttavia, alla Chiesa non basta la qualifica di indigenista. L’evangelizzazione, per realizzarsi pienamente, ha bisogno di promuovere la nascita e lo sviluppo di una “Chiesa indigena” in seno a questi popoli. Il Sinodo per l’Amazzonia sarà un passo decisivo per questo ambizioso obiettivo.
A Puerto Maldonado (Perù), durante l’incontro con i popoli indigeni della Pan-Amazzonia, papa Francesco li rincuorò e disse loro con chiarezza: «Abbiamo bisogno che i popoli indigeni plasmino culturalmente le Chiese locali amazzoniche (…). Aiutate i vostri vescovi, aiutate i vostri missionari e le vostre missionarie a fare unità con voi e così, dialogando con tutti, potete plasmare una Chiesa dal volto amazzonico, una Chiesa dal volto indigeno. Con questo spirito ho convocato un Sinodo per l’Amazzonia».
Questa proposta avanzata dal Papa significa il riconoscimento del principio che i popoli indigeni devono essere soggetti attivi anche della propria storia religiosa. La Chiesa riconosce loro questo diritto fondamentale. A questo proposito, è necessario vincere ogni tentazione di “colonialismo” religioso, da parte della Chiesa.
Tutto questo non limita il diritto della Chiesa di evangelizzare tutti i popoli della terra. Ma dice soltanto che l’evangelizzazione deve incarnarsi e inculturarsi nelle diverse culture, come ha fatto con efficacia, tra errori e successi, quando si è inculturata nella cultura europea del suo tempo. Il Documento Conclusivo della V Conferenza generale dei vescovi latino-americani e dei Caraibi, ad Aparecida, nel 2007, dice: «Il nostro servizio pastorale, orientato alla pienezza di vita dei popoli indigeni, esige che annunciamo Gesù Cristo e la Buona Notizia del regno di Dio, che denunciamo le situazioni di peccato, le strutture della morte, la violenza e le ingiustizie interne ed esterne, e che fomentiamo il dialogo interculturale, interreligioso ed ecumenico. Gesù Cristo è la pienezza della rivelazione per discernere i valori e le deficienze di tutte le culture, comprese quelle indigene» (n. 95).
Il dialogo interreligioso è una caratteristica del processo di evangelizzazione che esprime quel “rispetto e amore” che, secondo papa Francesco, Dio manifesta quando si avvicina ai singoli esseri umani e ai popoli. Dio non impone mai, ma propone “con rispetto e amore”.
L’evangelizzatore, quando si avvicina ai popoli indigeni per annunciare esplicitamente Gesù Cristo, deve seguire questo cammino di dialogo. Ciò significa, in primo luogo che deve andare nel loro ambiente e ascoltarli. Ascoltare ciò che essi vivono e dicono sulle loro conoscenze e sul loro rapporto con la divinità, la loro spiritualità, le loro narrazioni religiose. Scoprire i semi di verità e di bene che vi sono presenti. Mostrare un sincero apprezzamento reale per questi valori. E solo allora annunciare esplicitamente e progressivamente Gesù Cristo, morto e risorto, e il suo Regno, sottolineando che l’esperienza e le conoscenze religiose millenarie degli indigeni contengono già semi e modi di vivere che sono validi preannunci del Vangelo di Gesù Cristo. L’evangelizzatore deve riconoscere che nella storia di tutti i popoli Dio è sempre stato presente, li ha amati, li ha protetti e li ha preparati ad accogliere Gesù Cristo. Anche san Paolo apostolo ha proceduto in modo simile, quando ha annunciato Gesù Cristo ai gentili della sua epoca.
Se l’annuncio verrà liberamente accolto e abbracciato con fede, sarà necessario creare le condizioni affinché gli stessi indigeni esprimano la loro fede in forme consone alla propria identità culturale e storica. Si innescherà un processo nel quale, un poco alla volta, si svilupperà una autentica Chiesa indigena. Quest’ultima, in comunione con tutta la Chiesa universale, assume la Parola (Bibbia e dottrina), i Sacramenti e la Carità della Chiesa, ma con riti liturgici, spiritualità e vita comunitaria inculturati, con ministri ordinati autoctoni, ma rimanendo sempre, come ha detto il Papa, «nella fedeltà totale all’annuncio evangelico e alla tradizione della Chiesa».
Si compie così la diversità nell’unità della Chiesa universale. La Chiesa indigena sorgerà in seno a questi popoli che avranno accettato la fede in Gesù Cristo, e non sarà una Chiesa già perfettamente strutturata, importata da fuori e imposta. Sarà invece una Chiesa indigena, incarnata e inculturata nelle diverse culture indigene. Anche l’apostolo san Paolo, dopo aver annunciato Gesù Cristo ai pagani, a coloro che accoglievano l’annuncio, affidava la Chiesa nascente alle mani delle stesse comunità formate dai gentili convertiti, i quali, in piena comunione con la Chiesa di Gerusalemme, davano vita e sviluppavano una nuova Chiesa inculturata.
La Chiesa indigena diventerà anche, in concreto, una modalità viva di conservare nel patrimonio dell’umanità i valori, la sapienza, la cultura, sempre minacciati, di questi popoli autoctoni.