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Perché i nostri ragazzi hanno paura di essere felici

27/09/2018  «Un giovane che non sa sognare è un giovane anestetizzato; non potrà capire la vita, la forza della vita» (Papa Francesco)

«Come te la spiego la paura di essere felici quando non l’hanno capita nemmeno i miei amici?». In questa domanda è (forse) racchiuso l’universo di senso di una generazione, quella dei più giovani. Si tratta dell’incipit di Cherofobia, la canzone di Martina Attili, cantautrice sedicenne esplosa con il suo talento tanto grezzo quanto cristallino durante le audizioni di X Factor. La sua ballata è un pugno in faccia, un meticciato in note di sensazioni, di raschi alla pancia, di solitudini adolescenziali. Un apparente inno alla “non vita” che celebra quell’avversione alla felicità (la cherofobia appunto), seme e frutto di quel nichilismo che certi soloni dell’intellettualismo contemporaneo affibbiano con imprudenza irresponsabile alla gioventù.

Martina decide di cantare l’universo di cui fa parte liberandosi dal cliché di cuore e batticuore, per entrare a gamba tesa «tra i muri di una cameretta in cui ha iniziato a stare stretta». La camera è il traslato di un mondo personale, è esperienza simbolica di una vita introflessa come quella degli hikikomori, individui tra mito e realtà (soprattutto adolescenti) che scelgono di escludersi da qualsiasi tipo di vita sociale rinchiudendosi in uno stato di completo isolamento dal mondo esterno. Eppure la giovanissima aspirante pop star decide di abbattere quelle mura aprendosi a un pubblico che si alza in piedi per lei e addirittura sorprende i quattro giurati che promuovono all’unisono la sua performance.

Tra questi ci sono Asia Argento e Fedez, per certi versi simboli di un presente alla deriva. La prima, vittima (presunta) e poi carnefice (presunta) di molestie (e per questo esclusa dal talent show), il secondo, protagonista del primo matrimonio “social networking” della storia. Due personaggi, due vite triturate fino all’osso, allegorie di un “adesso online” fatto di emozioni prêt-à-porter, di odio scriteriato e di forsennata devozione. Sui media succede anche questo. La verità è ridotta a optional discrezionale. Si può essere mostro e il giorno dopo divo da osannare. È successo ad Asia Argento e ai Ferragnez. Può succedere a chiunque indipendentemente dall’indice di popolarità. Il digitale abbatte la gerarchia dei legami a cui siamo sempre stati abituati. Viviamo in tempi e spazi orizzontali che, invece di facilitare le relazioni autentiche, spesso rischiano di appiattirle a sterili contrapposizioni.

Ma c’è un altro rischio. Si chiama “assuefazione”. «Quando niente ti ferisce», grida Martina nella sua canzone e quando ci si trova a vivere «l’indifferenza più totale verso la forma astrale del male». Belle parole ma vuote di significato, dirà qualcuno. Anche questa è assuefazione a ciò che può provocare anche soltanto una piccola reazione emotiva.

Dalla cherofobia si passa quindi alla paura di amare (philofobia). L’amore diventa una minaccia al nostro equilibrio e, quindi, preferiamo mettere in pratica il comportamento opposto. Hate speech, fake news e tutto il negativo che conosciamo (e di cui siamo protagonisti) nascono da un desiderio recondito e inconsapevole di auto-protezione. Il male diventa rifugio, conforto, gratificazione. Like, post, condivisioni sono le armi con cui legittimiamo la nostra presenza. Perché sono immediate, disponibili, passeggere. Non comportano alcun “farsi carico,” alcun impegno o responsabilità, alcun sogno. E «un giovane che non sa sognare – spiega Papa Francesco (in occasione della veglia di preghiera al Circo Massimo con i giovani italiani dell’11 agosto 2018) – è un giovane anestetizzato; non potrà capire la vita, la forza della vita». Quella vita che Martina ha deciso di vivere scrivendo e cantando e contribuendo a costruire quello che il Pontefice definisce «un cammino diverso per l’umanità». E non importa se quel sogno si avvererà e Martina diventerà una stella della musica. Ciò che è importante è «dirti – conclude la sua Cherofobia – che staremo insieme, dirti che staremo bene».

MASSIMILIANO PADULA SOCIOLOGO E PRESIDENTE COPERCOM

Grazie per questa riflessione sui nostri adolescenti, sui nostri giovani. Sembra strano che la felicità possa, addirittura, far paura. Eppure questo spiega la chiusura in sé stessi di tanti, la ricerca dell’isolamento dai rapporti diretti per limitarsi a quelli dietro il presunto anonimato di internet o comunque mediati dallo schermo di un cellulare. Fino ad arrivare alla paura di amare e alla ricerca del suo contrario, cioè il male che si manifesta attraverso la diffusione di fake news, notizie false, e dell’hate speech, l’incitamento all’odio.

Io penso che, a parte i casi di vera patologia, questa paura della felicità derivi da un’idea sbagliata di felicità. Che magari siamo proprio noi adulti ad avere instillato nei giovani. Felicità intesa come successo, ricchezza, potere. È questo che sembra spingerci in ogni nostra scelta, che ci affanna continuamente, per cui ci diamo tanto da fare. Eppure dai nostri volti non traspare alcuna felicità. Siamo tristi, stanchi, nervosi, arrabbiati. Se questo è l’esito della ricerca della felicità, bisogna davvero averne paura. Lo stesso vale per chi è cristiano: se la felicità di aver incontrato Gesù Cristo non si vede concretamente in una vita gioiosa, la nostra testimonianza non funziona, diventa addirittura respingente.

Che cosa vuol dire, allora, essere davvero felici? Ce lo insegna Gesù nel Vangelo con le Beatitudini. La parola greca resa in italiano con “beati” può essere tradotta anche con “felici”. Per Gesù sono tali i poveri in spirito, coloro che piangono, i miti, chi ha fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace i perseguitati per la giustizia. Sono i santi di cui parla papa Francesco nella sua esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Vi invito a rileggere il capitolo terzo, dove il Papa si sofferma proprio sulle beatitudini, sulla vera felicità che Gesù offre a tutti.

Quella felicità che, come ebbe a dire san Giovanni Paolo II ai giovani, si trova in Cristo stesso: «È Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. È Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande».

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