Uber si presenta al mondo con un simbolino tondo giallo con dentro un’auto nera che sembra un taxi e sormontata dal simbolo della wi-fi in connessione, e di fatto quello fa: un servizio di trasporto con autista. Ma tecnicamente non è un taxi e non sottostà alle regole scritte per i taxi quando Internet non c'era. Questo spiega il malumore dei taxisti nei suoi confronti, che parlano di “concorrenza sleale”. Non solo in Italia: in tutto il mondo ci sono in corso cause e proteste che chiedono una regolamentazione.

Un  taxi comunale, come regolamentato dalla legge del 1992, poi aggiornata nel 2008, infatti prevede una licenza. Le licenze vengono cedute con concorso gratuito dai Comuni (bisogna avere la patente B e essere iscritti all’albo conducenti) prevendendo però un contingente di auto in circolazione fisso (a Milano sono 5.000). Ciò significa che finché non vengono concesse nuove licenze - e accade di rado -, chi desidera cominciare a fare il taxista può farlo solo ereditando la licenza oppure acquistandola da chi ne ha già una e intende cessare l’attività, non avendo a chi cederla. Si tratta di un costo iniziale elevato che si calcola variabile da decine a centinaia di migliaia di euro a seconda del luogo in cui si lavora e che i nuovi entrati, spesso i più giovani, impiegano molto tempo ad ammortizzare.

A differenza dei taxi e delle auto a noleggio, che sono obbligate dopo ogni corsa a partire dalla rimessa e ricervevi le chiamate senza possibilità di rifiutarle, Uber che agisce tramite internet e non via chiamata si inserisce nel vuoto normativo prodotto da una legge pensata in un tempo in cui Internet non esisteva e fa partire le auto dalla strada decidendo  se accettare o meno una chiamata in arrivo. Tutto questo, in attesa di nuove leggi difficili da scrivere per le tensioni che generano e gli interessi in gioco, crea una disparità destinata a finire in controversie nei tribunali.