Il 14 dicembre 2021 entra in vigore il decreto legislativo che ha recepito la direttiva Ue sul rafforzamento della presunzione di innocenza: lo ha fatto in senso molto restrittivo, con una modalità che Vladimiro Zagrebelsky, già giudice dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha descritto al momento dell’approvazione sulla Stampa così: «Va oltre la necessità di rispettare la presunzione di innocenza, investendo e limitando tutta la informazione sui procedimenti penali, indipendentemente dal fatto che venga in gioco la posizione degli indagati».
L’approvazione del decreto è stata salutata da Enrico Costa, suo principale sostenitore, come «lo stop al processo mediatico». Si tratta di intendersi su ciò che significhi “stop”, perché è noto che maggiore è la segretezza che vige attorno al procedimento penale, minori sono le garanzie degli indagati: i Paesi in cui nulla si sa di chi indaga, sul conto di chi e sul perché, non sono quelli da cui un cittadino può sperare di essere indagato e giudicato nel rispetto dei diritti. Non solo l’informazione è un diritto/dovere costituzionale e la cronaca giudiziaria, se fatta correttamente, è uno strumento di democrazia, perché rappresenta anche un indispensabile controllo sulla correttezza nell’esercizio dell’azione penale.
Se l’obiettivo è contenere le distorsioni del “processo mediatico” nel senso del cosiddetto “processo parallelo”, cioè quello che scimmiottandone uno vero si replica senza regole nello scontro tra innocentisti e colpevolisti nei salotti Tv, il decreto mancherà con ogni probabilità il bersaglio. Anche perché parte da un presupposto strabico: la convinzione pregiudiziale sottesa che la distorsione nasca tutta dalla comunicazione che viene dalla parte pubblica (ossia pubblici ministeri e forze dell’ordine), mentre è noto che il “processo parallelo” trae origine da molteplici fattori e coinvolge attori diversi, che il decreto non considera mentre limita anche negli aspetti virtuosi, tesi alla verifica di informazioni distorte per esempio, l’interlocuzione tra stampa e parte pubblica.
Se è vero che una conferenza stampa, che sarebbe bene contenere stilisticamente nei limiti della sobrietà cosa che non sempre avviene, in genere accompagna l’applicazione di misure cautelari (ed è ovvio che alla parte che procede in un Paese democratico si chieda di spiegare le ragioni di un arresto di persone prima che intervenga un giudizio), è vero che raramente quello che lì emerge e va a finire in un Tg diventa da solo materia dello “spettacolo” sulla giustizia. “Il processo parallelo” infatti una volta innescato ha una vita propria nei salotti Tv e sui rotocalchi alimentata, più che da Pm e forze dell’ordine vincolati al riserbo su inchieste e processi in corso, da parti private e da altre figure che nulla hanno a che fare con il processo vero.
Difensori e avvocati di parte civile non nominati dal decreto, per esempio, conoscono le carte, non più segrete una volta in loro possesso, ma hanno l’ovvio interesse a comunicarne soltanto la parte favorevole al loro assistito e capita che si coinvolgano in questo anche parenti di imputati (è persino accaduto che congiunti che in aula si erano avvalsi del diritto a non testimoniare loro riconosciuto dal codice abbiano poi parlato in Tv!). Ma non è detto che questo, riguardando avvocati, salvaguardi almeno la presunzione di innocenza, perché possono esservi coimputati interessati a sostenere tesi diametralmente contrapposte (si pensi al caso Kercher) e ad accusarsi vicendevolmente. In qualche caso è pure accaduto che fuori dalle aule, in Tv o sui rotocalchi, si adombrasse il sospetto su terzi, non indagati.
Non solo, il processo parallelo coinvolge quasi sempre anche altri “attori”: criminologi, psicologi, esperti, opinionisti, che non conoscono le carte, ma che si esprimono con ragionamenti di massima su indiscrezioni e congetture della più varia provenienza, senza che il pubblico ovviamente possa distinguere tra quello che è agli atti (l’unica cosa che conti in un processo, il resto è chiacchiera) e quello che non lo è.
Il risultato strabico potrebbe essere dunque che l’effetto del decreto non sia garantire la corretta informazione sulla giustizia e neppure far “finire” il processo mediatico (cosa evidentemente impossibile a meno di non togliere la libertà di informazione dalla Costituzione), ma di esporlo alla distorsione ulteriore di fondarlo sulle informazioni di tutte le fonti più o meno bene informate, lasciando ai margini la sola che conosce tutte le carte e che ha l’onere della prova in giudizio, tra l’altro tenuta, indagando secondo la procedura italiana non contro l’indagato ma per la ricerca della verità, a tenere conto anche delle eventuali prove a discarico. A suo modo un paradosso.
Solo la prova dei fatti dirà se con il decreto in vigore, ma è lecito dubitarne, ne guadagni la presunzione d’innocenza, di certo non ne guadagneranno l’equilibrio e la correttezza dell’informazione. Anche perché si pone un problema ulteriore: il decreto restringe l’accesso trasparente e comune alle fonti pubbliche anche per scopi di verifica di una notizia che potrebbe essere falsa o distorta, limitandole a soli comunicati stampa e riducendo il più possibile il campo delle conferenze stampa, in cui in condizioni di parità tutti possono chiedere chiarimenti e fare domande, mentre tra l’altro affida al Procuratore la decisione sull’interesse pubblico di una notizia, cosa che esula dai suoi compiti e dovrebbe invece competere alla libera stampa.
Ma l’esperienza insegna che dove la trasparenza nel dare e ricevere notizie viene meno, prosperano l’opacità e il sottobanco, contesti nei quali in genere vincono i meno corretti di tutte le parti (nessuna è disinteressata per definizione). Un rischio di cui si legge l’eco anche nella direttiva inviata dal Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, agli organi di polizia giudiziaria in ottemperanza al decreto: «Si è consapevoli che norme così rigorose potranno limitare il diritto degli operatori dell’informazione all’accesso alle notizie e persino, per una non voluta eterogenesi dei fini, incentivare la ricerca di esse attraverso canali diversi, non ufficiali e persino non legittimi».
È vero che in genere si replica a questa critica con l’adagio per cui Pm e giudici parlano con gli atti, in Italia tutti motivati, ma è altrettanto vero che non si può chiedere a un comune cittadino di avere gli strumenti per informarsi leggendosi in proprio migliaia e migliaia di pagine di atti non di immediata comprensione, ammesso che riesca ad accedervi. Anche perché capita che pure le sentenze definitive, già depositate, prima di divenire realmente accessibili talvolta anche ai giornalisti, giacciano (anche per anni!) nel limbo in attesa che venga completato l’oscuramento dei dati sensibili in esse contenuti.