Era con lui quella mattina del 19 marzo
1994. Era andato a trovarlo per fargli
gli auguri di buon onomastico. Per
motivi di sicurezza ne omettiamo le
generalità. Le sue deposizioni hanno
contribuito a incastrare il killer e anche
a evitare l’arresto di due innocenti. Da
allora la sua vita è diventata un
inferno. Ha vissuto in un paesino
umbro per quattro anni, a sue spese,
senza scorta, costretto a lasciare
la sua attività di fotografo. «Dopo
quelle deposizioni ho trovato il buio,
l’indifferenza di tutti, non mi rimaneva
altro che andarmene. Oggi conduco
una vita di sacrifici, penalizzata dalle
varie conseguenze negative sulla mia
salute e sul mio lavoro». Il suo
esercizio commerciale va a rotoli.
I soldi della moglie, precaria di scuola,
gli servono per «coprire le rate di
Equitalia per la situazione pregressa
legata all’attività commerciale». Al
processo si recò in tribunale scortato
solo da don Carlo, un suo amico prete
che lo accompagnò. Lo chiamano da
ogni parte d’Italia per portare la sua
storia di legalità, e l’associazione
Libera di don Ciotti nel 2012 gli ha
conferito il Premio nazionale alla
memoria di don Giuseppe Diana. Ha
chiesto un indennizzo per gli anni patiti
e i sacrifici fatti. Ma l’avvocatura dello
Stato sostiene che non merita alcun
riconoscimento. Perché?