L’aggressione a Daisy Osakue, l'atleta italiana di origini nigeriane ferita ad un occhio dal lancio di un uovo a Moncalieri non è che l’ultimo di una serie di odiosi casi che si sono susseguiti in questi giorni in tutto il Paese come il pestaggio a Partinico, in provincia di Palermo, del senegalese di 19 anni, insultato e picchiato mentre stava servendo nel bar dove lavora; le tre donne che a Catania sono state lasciate a terra da un pullman di Catania; la piccola bambina rom di 13 mesi colpita alla schiena da un piombino mentre è in braccio alla mamma, da un ex dipendente del Senato che, voleva “provare l’arma” sino all’omicidio, nella notte tra il 28 e il 29 luglio ad Aprilia, di un cittadino marocchino morto dopo essere stato inseguito in auto da due persone convinte che fosse un ladro. Una scia di sangue che inquieta e che ci costringe a sottolineare qualcosa che potrebbe sembrare ovvio ma forse non lo è più… e cioè che un cristiano non può essere razzista. Lo ricorda nel pezzo che segue il teologo Pino Lorizio (La redazione)
L’acceso dibattito di questi giorni, alimentato da deprecabili fatti di cronaca, chiede di essere accompagnato da una riflessione critica e al tempo stesso serena su cosa significa essere cristiani. L’analfabetismo in materia di fede e di religione che caratterizza il nostro tempo chiede un lavoro di alfabetizzazione, che prima ancora è culturale e filosofico.
Nell’immaginario collettivo spesso si pensa e si afferma che la fede nel Dio unico sia motivo di violenza nei confronti di quanti non la condividono. Al contrario, il fatto che crediamo in un unico Dio comporta che riteniamo questo Dio creatore e signore del cielo e della terra e quindi di tutto e di tutti, anche dei non credenti in Lui o dei “diversamente credenti”. E tale fede richiede quindi atteggiamenti e comportamenti di pace, di accoglienza, oserei dire di tenerezza, verso tutti ed in particolare verso gli ultimi, i poveri, gli immigrati, le minoranze e verso i non credenti o in coloro che coltivano fedi diverse da quella cristiana.
Nel caso del povero e del migrante, l’attenzione del cristiano dovrebbe risultare ancora più viva, in quanto siamo di fronte all’umano nella sua nudità ed essenzialità, mancando queste persone di ruoli, di difese, di orpelli di maschere, quali quelle che indossa nel proprio quotidiano il benestante o la persona affermata e riconosciuta, più per il suo ruolo che per il suo essere.
Al contrario il politeismo storico e quello che, come fenomeno culturale, si esprime nella forma del neo-politeismo o neo-paganesimo, può di fatto alimentare atteggiamenti e comportamenti di violenza e di sopraffazione del diverso, in quanto la devozione alla propria divinità fa sì che essa venga ritenuta superiore a quella degli altri, che sarebbero da combattere e sconfiggere, perché si affermi la supremazia del proprio dio sugli altri dei, della propria nazione, della propria razza, della propria cultura, della propria simbologia sulle altre. La stessa esibizione di simboli religiosi e perfino cristiani, che spesso si esprime nei termini di ostentazione strumentale, piuttosto che espressione di identità, rischia di alimentarsi per carenza di convinzione e di autentico radicamento della fede che si ritiene di professare.
Chi ha paura dell’alterità, del dialogo e dell’accoglienza mostra una profonda insicurezza e un radicato egoismo, che nulla ha a che vedere con la fede nel Dio unico, tanto più se si tratta del Dio di Gesù Cristo, che raccoglie in sé, unitamente all’unità della natura, l’alterità delle persone, tenute insieme dal vincolo di un amore assoluto, che il cristiano è chiamato a vivere ed esprimere nella propria esistenza.