Pateh si è tuffato ed è annegato in pochi secondi, senza urlare “aiuto”, senza afferrare il salvagente che era a portata di mano. Immobile, ha solo alzato le braccia, come fosse una resa a un destino ostile e s’è lasciato risucchiare dall’acqua fredda e torbida, scomparendo la chiglia del vaporetto che gli si era accostato per prestargli aiuto. Lo ha fatto davanti allo sguardo attonito di centinaia di turisti che affollano costantemente la riva del Canal Grande nei pressi della stazione ferroviaria. Venezia, un posto così “sbagliato” per suicidarsi, che molti degli astanti hanno pensato a uno scherzo o una bravata, a una delle tante esibizioni “fuori programma” che il palcoscenico veneziano provoca, da sempre.
Ma stavolta a Venezia, la domenica pomeriggio del 22 gennaio, ad andare in scena è stato l’atto unico di una tragedia: quella di Pateh Sabally, 22 anni, profugo del Gambia e arrivato in Italia nel 2015, con permesso di soggiorno umanitario ottenuto a Pozzallo in Sicilia. Addosso gli hanno trovato i documenti custoditi in una busta di plastica sigillata. Nello zainetto lasciato a riva il biglietto ferroviario Milano-Venezia del giorno prima. La sua è stata, forse, l’ultima delle repliche della stessa, intramontabile tragedia: quella di chi, solo e senza futuro, non trova altro motivo per vivere e decide di farla finita.
Solo che in questo seducente, straordinario teatro a cielo aperto che è la città lagunare non s’è mai dato un dramma del genere. Non si è abituati alla morte in scena nella città del carnevale. Un profugo africano è venuto a morire a Venezia, nello specchio acqueo più bello e conosciuto del mondo. Non è stato inghiottito dai flutti del mare “monstrum” del Mediterraneo, dopo essersi imbarcato su uno dei tanti scafi malconci e debordanti di altra umanità fuggitiva. Non è scomparso nelle profondità nero pece, come l’innumerevole schiera di disperati in fuga da qualche male. Pateh ha scelto acque totalmente diverse. Chissà perché. Forse per dare un segnale al mondo? Per rendere eclatante, clamorosa una morte, in nome e per conto di tanti altri anonimi affogati come lui? Per strappare il sipario delle nostre indifferenze? O solo per caso? Un suo cugino ha raccontato che aveva problemi di salute. E se davvero la malattia mentale avesse minato la mente del giovane africano, prima o al posto della depressione? Tutte domande che non troveranno una facile risposta.
I video che riprendono i suoi ultimi istanti di vita, però, hanno subito fatto il giro del web e dei social. Vi si sente la gente che dalla riva grida di tutto: “Africa, dai!”, “Prendi il salvagente”, “E alora neghite!”, “Dai che torni a casa tua”. Gli insulti si mescolano agli incitamenti e alle tante voci che cercano aiuto, che chiedono ai natanti di buttare i salvagente. Nell’audio delle riprese postate in rete c’è l’intero spettro delle reazioni della nostra società di fronte alla disperazione di chi viene da un altro mondo per affogare in acque territoriali: dallo scherno alla pietà, dall’incomprensione dell’accaduto alla preoccupazione solidale. Siamo noi su quella riva.
In tante altre occasioni, ha osservato qualcuno, quando tutto sembra perduto, arriva, però, l’eroe di turno che si tuffa e salva chi sta per morire. Stavolta, per sfortuna di Pateh, non si è palesato nessun “Incredibile” coi superpoteri a portarlo in salvo. Niente medaglie al valor civile; niente italiani cui andare fieri. E “il salvagente dei diritti, dell’accoglienza è stato lanciato tardi o male”, commenta con tristezza don Nandino, un sacerdote veneziano impegnato da anni nell’accoglienza di chi dalla vita ha preso solo sputi in faccia. “Vorremmo averti conosciuto il giorno prima, Pateh. Ti avremmo abbracciato ti avremmo tenuto stretto”, dice. “Forse, ma non lo sapremo mai, ti sarebbe bastato sapere di non essere solo”.
Non è scandaloso il fatto che stavolta nessuno si sia gettato nell’acqua gelata del Canal Grande, rischiando la propria vita per salvare quella di un altro. E non è vero, come qualche benpensante ha sentenziato, che se si fosse trattato di un uomo bianco, un eroe si sarebbe materializzato alla bisogna. Capita e basta.
Scandaloso e triste di questa morte a Venezia, invece, è il fatto che, prima dell’ultimo tuffo, nessuna delle nostre “reti” sociali, istituzionali o volontarie che siano, abbia intercettato e “ripescato vivo” il profugo, per aiutarlo a ritrovare almeno un motivo per vivere. Ne sarebbe bastato solo uno, per non ridurci a gettare l’ultimo salvagente in acqua.
Tra qualche giorno il carnevale intaserà di turisti la riva da cui Pateh ha fato il salto. La festa ricomincerà, come tutti gli anni, incurante della morte che aleggia ancora sulle acque del “Canalazzo”. E la maschera struggente di quello straniero troppo fragile si confonderà tra le altre.