Una banconota danneggiata (Reuters).
Ieri notte, in seguito ai disordini che si sono verificati in molte città, il premier ha rassicurato gli italiani con un messaggio tv a reti unificate. Sono consapevole – ha detto – che i rincari di benzina e alimentari stanno causando danni alle famiglie. Ma l’effetto della svalutazione della neolira, sostituita all’euro dopo l’uscita dai trattati dell’Unione, non mancherà di fare sentire a brevissimo i suoi effetti positivi. Presto le nostre esportazioni faranno volare la nostra economia con ricadute positive per le tasche di tutti i cittadini….
Probabilmente non leggerete nulla di tutto ciò sui nostri giornali. Ma sono tempi duri quelli di elezioni e la fantasia di qualche apprendista stregone corre più del solito. E dunque: proviamo a immaginare per un momento lo scenario più acclamato dal partito della protesta a oltranza. Ovvero, referendum sull’euro, vittoria dei sì, uscita dalla moneta unica. E lasciamo pur perdere i dettagli, per esempio l’impossibilità giuridica a “disdettare”i vincoli europei per via referendaria. Pronti via: l’Italia esce dall’euro, rimette in circolo la vecchi lira, che chiameremo per gioco neolira. Cosa accade?
Lo scenario: cosa cambia per le famiglie. La sequenza classica, sul breve periodo, prevede queste parole una in fila all’altra: svalutazione, perdita del valore d’acquisto, aumento dei tassi sul debito pubblico. La neolira perderebbe sull’euro tra il 20 e il 30% del suo peso secondo stime arrotondate al ribasso (Il Cepr, Center for Economic Policy Research, stima che il deprezzamento sarebbe non inferiore al 40%). Il potere d’acquisto dei salari si ridurrebbe come un vestito lavato in acqua troppo calda. Case e risparmi perderebbero valore in parallelo alla caduta della neolira. La spesa alimentare e di tutti i beni di primaria necessità crescerebbe in un botto. E dai bilanci domestici la prima cosa a saltare sarebbe l’auto: l’aumento del prezzo delle materie prime farebbe salire il costo dei carburanti e manderebbe fuori bilancio l'auto di famiglia. I calcoli di un economista francese – Nicolas Baverez – quantificano l’uscita dalla moneta unica europea in una perdita annua pro capite che oscilla tra i 4.000 e i 5.000 euro. Altro che il bonus di 80 euro di Renzi e compagnia.
Cosa cambia per lo Stato e le imprese. Quanto al debito pubblico - che ai tassi attuali ci costa circa un miliardo al giorno - l’effetto immediato sarebbe di apparente sollievo, visto che pagarlo con moneta deprezzata costerebbe qualcosa in meno. Ma non tutto il debito, in realtà, sarebbe calcolabile in neolire. Le obbligazioni emesse sui mercati internazionali - sia quelle pubbliche (dallo Stato) sia quelle private (da banche e aziende) - non potrebbero essere ridenominate nella nuova moneta (pena il default) e seguirebbero il corso dell’euro. La cosa non avrebbe effetto solo per le imprese italiane più dinamiche che hanno bond sui mercati obbligazionari (sono in totale una cinquantina) per le quali l’affare svalutazione sarebbe pessimo. Varrebbe per tutti gli istituti di credito. Da qui meno prestiti alla produzione, meno fidi alle famiglie. In gergo si chiama credit crunch e non è un attrezzo da palestra ma “la stretta creditizia”: meno denaro a chi ne ha bisogno.
Un’illusione ottica. Sì ma la svalutazione ha anche i suoi guadagni, obietteranno gli euroscettici. Non è così che si curano da sempre le economie malate? Non è così che l’Argentina, per citare l’ultimo tra i casi più noti, è venuta fuori dalla crisi del 2001? Certo, una moneta più debole significa spendere meno per pagare ciò che si importa e vendere più caro quello che si esporta. Si chiama speculazione competitiva e in effetti è stato questo lo strumento che anche l’Italia ha usato fino alla fine degli anni 80, quando inflazione, tassi sul debito ed export correvano in parallelo. Peccato che anche questo rimedio sia ormai fuori corso. Per almeno tre motivi, che Confindustria ha messo in rilevo in uno studio firmato dagli economisti Cristina Pensa e Ciro Rapacciuolo. Primo: un tempo, quando la globalizzazione era ancora un neologismo da linguisti, una economia sviluppata importava materie prime ed esportava prodotti finiti. Oggi invece importa beni intermedi (per esempio i circuiti integrati del cellulare, la sua scheda audio…) e restituisce prodotti finiti (il telefonino, o parti di esso). Sui beni intermedi – che nel caso italiano ammontano a circa il 60% dell’import totale - la svalutazione competitiva ha un impatto molto meno forte, quasi nullo perché i margini sono troppo risicati. Secondo: il credit crunch, appunto. Alle imprese che volessero aumentare i volumi della produzione per guadagnare su un export più redditizio mancherebbe l’ossigeno, ovvero i prestiti per rincorrere l’export. Terzo: la svalutazione competitiva non ha effetto se le economie dei Paesi di destinazione svalutano la loro moneta. E’ quanto ha fatto negli ultimi anni la Cina: mantenere “debole” la propria moneta ha “contrastato” nel tempo quanto Pechino importava e ha “valorizzato” quanto esportava, soprattutto verso gli Stati Uniti. Se si considera che negli anni 80 la Cina contava circa il 2% del totale dell’export mondiale, era al 3,5% nel 1998 quando nacque l’euro e oggi è salita al 12% si capisce quanto la eventuale svalutazione competitiva fatta dalle neolira sarebbe la classica paletta che vuol svuotare l’oceano.
Insomma, si può essere arrabbiati con l’Europa, e forse è perfino comprensibile. Ma non si possono prendere le scorciatoie della rabbia per trovare un rimedio. Perché sono strade senza sbocco. Anche se prima delle elezioni sembrano larghe come autostrade.