Conflitto di interessi. Ormai è una espressione sulla bocca di tutti: a proposito ed a sproposito. E “fa notizia”. Le cronache ne sono piene e quando si parla di manager pubblici e di politici è all’ordine del giorno sentire accuse e difese in chiave di “conflitto di interessi”. Alexander Pereira è stato designato nell’autunno del 2013 come nuovo sovrintendente del Teatro alla Scala di Milano: la massima istituzione culturale italiana in termini di risonanza internazionale.
Pereira, 67 anni, è austriaco, ha lavorato all’Olivetti da giovane, per poi approdare all’organizzazione della musica. Come direttore del Teatro di Zurigo ha saputo portare quell’istituzione ai massimi livelli: poi è passato a dirigere il Festival di Salisburgo nel 2012. Proprio il suo ruolo al Festival ha determinato la questione scaligera. Perché Pereira sta per lasciare Salisburgo e prendere il posto di Stéphane Lissner (chiamato all’Opéra di Parigi dopo 9 anni a Milano): con un passaggio di consegne previsto per il prossimo autunno.
Prima di allora Pereira è considerato un “consulente” del Teatro. Mentre Lissner ha già ottenuto da Parigi le deleghe per programmare, comprare, sottoscrivere contratti, Pereira dovrebbe attenersi al ruolo di consulente. Ma si è impegnato formalmente ad acquistare un certo numero di allestimenti dal Festival di Salisburgo. “Quindi da se stesso”, sostiene chi denuncia il conflitto di interessi: rafforzando la tesi con i benefici di bilancio che l’operazione comporta per Salisburgo.
La denuncia ha messo in discussione la sua nomina. Ed è cominciato il balletto delle accuse, delle difese, delle opinioni, degli interventi politici rigorosamente di stampo elettorale, della esposizione mediatica: ma siamo in Italia, e tutti noi sappiamo che i giochi di potere (politico e finanziario) sono per natura destabilizzanti, anzi mirano alla destabilizzazione perpetua. Sono quindi avulsi da una logica di comprensione vera dei problemi e di analisi serena dei fatti. Analisi che il consiglio di amministrazione della Scala ha voluto ufficialmente esperire e riferire al ministro della Cultura Franceschini che correttamente l’aveva sollecitata, benché non spetti a lui la nomina del sovrintendente.
Le risposte di Pereira non si sono fatte attendere: la Scala ha fatto un
buon affare, ha ribadito, gli allestimenti sono bellissimi e produrli
sarebbe costato molto di più. Vero: soprattutto in una logica che esige
da un Teatro moderno di collaborare con i Teatri che gli sono simili. E
Salisburgo indubbiamente può essere un partner della Scala. Qualcuno ha
anche affermato che i laboratori della Scala devono lavorare il più
possibile, e vendere loro gli allestimenti all’estero: giusto anche
questo, ma chi lo ha detto ignora le logiche delle coproduzioni fra
grandi teatri (che presuppongono una ripartizione dei titoli e nessuna
posizione egemonica) e l’impegno che ogni allestimento richiede alla
Scala. Mentre nessuno ha criticato Pereira per aver acquistato
allestimenti nuovi benché ne abbia già pronti di validissimi.
Insomma le
argomentazioni non sono andate oltre lo slogan. Separare i nodi della
polemica distinguendo buona fede, partito preso, interesse di parte e
manovre di carattere partitico è un gioco troppo difficile e troppo
italiano per essere fatto. Soprattutto quando viene messa in ombra la
necessità fondamentale di un Teatro lirico come la Scala: la
programmazione deve essere del massimo della qualità ed effettuata con
larghissimo anticipo. Pereira ha iniziato subito a pensare alle stagioni
future, compresa quella coincidente con l’Expo che aveva cominciato ad
impostare Lissner. Oltre a ciò è prassi corrente che i direttori dei
Teatri portino con sé alcuni allestimenti, quale “cifra” delle loro
scelte artistiche. Quindi se anticipo di poteri c’è stato questo
anticipo deve aver riguardato anche l’impegno con i cantanti, con i
direttori, con i registi, e non solo l’acquisto di allestimenti. Ma
nessuno ne parla.
E dando per scontato che Salisburgo è partner
certamente adatto al livello Scala, se conflitto c’è stato a Pereira si
può semmai rimproverare di aver agito con meno trasparenza del dovuto,
di aver voluto subito imprimere una “cifra stilistica” alla sua
direzione.
Ma a questo punto le posizioni possibili sono due: la
risoluzione del contratto o la prosecuzione “per non aver commesso il
fatto” (salvo un peccato veniale, visto che un direttore che non può
dirigere è un nonsenso). Chiedergli come alla fine è stato deciso di
rimanere fino alla fine del 2015 e di gestire la stagione dell’Expo è
una soluzione all’italiana. Che non ha senso e che danneggia la Scala:
perché come detto un direttore di teatro d’opera gestisce una stagione
mentre prepara le successive. Una rimozione ed una disamina del
comportamento di un manager poi devono essere motivate non dagli
interessi di chi è in lista di attesa o dalle lotte intestine. Ma dal
principio di una sana gestione della cosa pubblica. Troppo semplice?