Persona: senso del limite e fascino delle frontiere
"Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?" (Mario Luzi)
XXXVI edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli (Rimini, 22 agosto 2015)
Introduzione
Il tema scelto per questa 36a edizione del Meeting è un tema di carattere squisitamente antropologico; un tema capace di portarci immediatamente al centro della questione umana, al "cuore" dell’esperienza che ognuno di noi fa; al cuore, quindi, dell’uomo stesso. Un cuore mai appagato che, a tratti, ma costantemente nel tempo, sperimenta una radicale "mancanza", a proposito della quale Mario Luzi interrogava il suo cuore con quelle parole che voi stessi avete scelto: «Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?». Un cuore che – se non è malato - fa del raggiungimento di ogni traguardo esistenziale una meta transitoria, punto di ripartenza per una tappa successiva. Un’esperienza che trova eco in quello che Bernardo di Chiaravalle scrive nel suo Commento al Cantico dei cantici[1].
Così l’uomo – ogni uomo - vive costantemente proteso alla ricerca di "altro-da-sé", nella fiduciosa attesa di riuscire a dare un nome (e quindi "un volto") a ciò che può saziare il suo cuore.
Vorrei partire proprio da questo dato esperienziale che ci accomuna tutti, pur nella diversità di espressione che caratterizza ciascuno di noi, per provare a interrogare antropologicamente quella “mancanza” che, costantemente, tiene desto ed affamato il nostro cuore. Vorrei provare, con voi, a riflettere sull’esperienza del limite e della fragilità che accompagnano la vita quotidiana di ogni individuo: «Di che è mancanza questa mancanza?».
Quante domande mi si sono affacciate mentre preparavo queste riflessioni!
Tra le più insistenti: perché il nostro cammino, individuale e comunitario, è contrassegnato, e in modo così profondo – qualche volta in maniera insopportabile - dalla “mancanza”? E quindi: perché tutti gli uomini, prima o poi, fanno i conti con qualche forma di mancanza/povertà? Ancora: l’esperienza del limite annichilisce la vita dell’uomo o può rappresentare, se adeguatamente compresa e integrata, un’occasione di crescita e di umanizzazione? Un’altra domanda: in che modo una seria assunzione del limite può portare a un rinnovamento dell’esistenza personale e comunitaria?
Per rispondere a queste domande e partendo dall’esperienza della “mancanza” che il cuore dell’uomo patisce, provo a raccogliere le mie riflessioni intorno a tre nodi: il primo è costituito da uno sguardo rivolto ad alcuni degli approcci filosofici che hanno affrontato il tema del limite con l’uso della sola ragione; in un secondo passaggio richiamerò il contributo nuovo e unico della fede cristiana alla comprensione del limite; da ultimo tenterò di far discendere da quella che chiamo “antropologia del limite” alcune conseguenze pratiche per la vita dei singoli, per la Chiesa e per la società.
Anticipo che il percorso che ho fatto e che metto in comune con voi mi ha portato a concludere che il senso del limite è solo un momento – per quanto forte ed intenso - dell’esperienza dell’uomo; l’uomo infatti non smette di subire costantemente il fascino delle frontiere. Sicché la mancanza è una condizione che, se accettata ed integrata, apre all’ “oltre”, alla trascendenza.
La persona umana, tra esperienza del limite e fascino delle frontiere
Il nostro tempo è stato, tra l’altro e da più parti, definito come tempo post-filosofico, perché sempre meno attento alla giustificazione razionale degli orientamenti e delle scelte, individuali e pubbliche, guidate per lo più dal perseguimento di interessi e fini immediati e poco meditati, dettati spesso dalla ricerca dell’utile e meno da un progetto consapevole e a lunga scadenza. Solo apparentemente questo modo di agire è privo di presupposti teoretici e di reali obiettivi. In realtà, presupposti e obiettivi esistono, ma non sono esplicitati; rimangono sotto traccia, quasi non dovessero essere sottoposti a un vaglio attento. A ogni azione o orientamento corrisponde sempre un certo valore che si intende perseguire; sempre vi è alla base dell’agire una certa idea di persona, un ideale di essere umano e di società da raggiungere e verso il quale ci si incammina.
Possiamo dire allora che l’antropologia è l’elemento centrale e propulsivo del nostro operare, perché a partire da come pensiamo la persona umana e il modo in cui dovrebbe vivere, costruiamo, per quanto ci è possibile, un certo tipo di società e di esistenza individuale. Per questo motivo, è essenziale elaborare un’antropologia adeguata, senza la quale si sarà guidati da un’immagine distorta di ciò che siamo o dovremmo essere. In fondo, è stata questa l’intuizione che ha accompagnato in maniera decisa e criticamente fondata l’impegno della Chiesa italiana attraverso il Progetto culturale e, più specificamente, attraverso l’attenzione riservata alla “questione antropologica” dal Card. Camillo Ruini e ripresa ripetutamente dal Card. Angelo Bagnasco. Quel Progetto culturale, aveva preso sul serio gli esiti cui aveva portato un preciso momento storico/culturale: mi riferisco agli anni Settanta.
A partire dagli anni Settanta, abbiamo assistito a un radicale mutamento del paradigma antropologico, che ha contribuito a mettere al centro - talvolta enfatizzandola in maniera esclusiva - la libertà individuale, quasi rappresentasse l’unico vero valore. Questo dato viene oggi presupposto e assunto acriticamente, perché ritenuto del tutto evidente; ed è tacciato di essere retrogrado, repressivo e fuori dal tempo chi tenta di metterlo in discussione e mostrare, argomentando, che la persona non è solo libertà e libertà assoluta e che la sua è, come scriveva Emmanuel Mounier, una “libertà creata”. Non solo, ma l’uomo è tante altre cose ancora: ricerca di Dio e della verità, responsabilità, accettazione del sacrificio, alle quali è intimamente legato il raggiungimento di una libertà vera. Senza potere giustificare come si dovrebbe l’affermazione seguente, diciamo in breve che il relativismo che qui si manifesta vuole promuovere a tal punto la libertà individuale da non tollerare chi la intenda in altro modo, limitando la libertà altrui al fine di difenderla: autentica contraddizione e vero spirito post-filosofico, non razionale.
Provo ad inserirmi in queste derive e a confrontarmi razionalmente con esse formulando una proposta molto concreta, sulla quale molti filosofi hanno riflettuto approfonditamente e che rende ragione di tanta parte della nostra vita quotidiana. Il mio angolo visuale, ecco la proposta che avanzo, è di comprendere l’essere umano a partire dal limite, articolando così una “antropologia del limite”, non nel senso di un’antropologia non orientata alla felicità o al benessere della persona; ma nel senso di un’antropologia che li persegue tenendo conto della nativa debolezza dell’uomo. Il limite, la “mancanza” non possono essere semplicisticamente messi da parte come un inconveniente o un elemento trascurabile, ma vanno assunti come elementi che strutturano radicalmente l’essere della persona, e vanno valorizzati come portatori di una potenziale ricchezza.
L’uomo è, nella sua stessa essenza, un “essere-nel-limite”. Non mi riferisco qui al limite morale, cioè al male che talora l’uomo deliberatamente decide di compiere e che ne corrompe l’integrità, danneggiando se stesso e il prossimo. Parlo invece del limite insito nella natura stessa dell’uomo, in quanto essere creaturale e intrinsecamente mancante; mancanza, della quale facciamo esperienza ogni giorno e che si manifesta in molte forme e innumerevoli aspetti: nella malattia e in ogni forma di sofferenza, nella difficoltà o impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni, nella fatica a collaborare e convivere con gli altri, nella morte che pare azzerare e svuotare ogni obiettivo raggiunto.
Se il limite, di cui siamo rivestiti, non è accettato, l’esistenza può trasformarsi in una finzione e divenire il tentativo di svincolarsi dai limiti senza mai riuscirvi, di negare la propria natura finita e la propria pochezza. L’essere umano desidera ciò che è grande e illimitato e tende a raggiungere cose sempre più grandi di quelle che ha. Questo è positivo e non è un male in se stesso. Lo diviene però se egli rifiuta la sua debolezza e intende questi obiettivi come dei diritti, arrivando a pretendere di raggiungerli invece che perseguirli con umiltà. Questo – l’umiltà – è l’atteggiamento interiore che consente di valorizzare il limite, rendendolo un motivo di crescita invece che di rammarico; è la virtù che permette di accettare la propria condizione senza desiderarne un’altra, ma accogliendone le sfide e la bellezza.
Il limite non come ostacolo ma come via di compimento dell’umano
Il limite è nell’uomo un fattore propulsivo, in quanto genera il desiderio, che è il motore della volontà. Se l’uomo possedesse tutto, non cercherebbe nulla; se al contrario si scopre mancante, è mosso alla ricerca di ciò che non ha. Questo avviene per esempio sul piano della conoscenza, come spiega un intenso passaggio dell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II: «Il desiderio di conoscere – affermava il pontefice – è così grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore dell’uomo, pur nell’esperienza del limite invalicabile, sospira verso l’infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta» (n.17). Compresa in quest’ottica, la percezione del proprio limite è fonte di nuove scoperte, perché suscita nell’uomo il desiderio di conoscere e di cercare. Questo avviene su tutti i piani del vivere umano, dalle relazioni, al benessere economico, alla ricerca dell’Assoluto.
In quest’ottica, il limite non è semplicemente sinonimo di “imperfezione”, ma è la radice stessa dell’apertura dell’uomo. Proprio l’esperienza dell’indigenza, infatti, che nasce dal limite, porta al fascino delle frontiere. Il limite allora è una scuola capace di insegnarci quale sia il segreto della vita. Chi è appagato non cerca, né lo fa chi è disperato. Cerca invece chi è povero, cioè chi percepisce il limite come caratterizzante la natura umana e ne fa motivo di crescita. In questo senso la persona va concepita in modo che il limite non sia un accidente, ma costitutivo dell’essere. Se accettato, la coscienza del limite si trasforma in desiderio di aprirsi agli altri e all’Altro, con la a maiuscola, cioè a Dio.
… a garanzia dell’umanità della persona
L’antropologia del limite però non può risolversi in uno sterile elogio del limite in quanto tale, né dell’imperfezione in se stessa. Ciò che invece va elogiato è l’essere umano e la sua “umanità”, intesa come qualità essenziale. Un humanum, come ho più volte affermato, che non può prescindere dal limite e dalla coscienza di esso.
Ma se ciò mette al riparo da qualsiasi forma di perfezionismo, non ci dispensa certo dal cercare risposta ad alcuni ulteriori interrogativi chiarificatori su quella che, in mancanza di altri termini, stiamo chiamando “antropologia del limite”. Tra le tante possibili, due questioni immediate meritano la nostra attenzione. La prima: l’antropologia del limite non priva l’uomo di una meta, di un ideale? E poi, la seconda: quella che abbiamo chiamato fin qui “antropologia del limite” non favorisce forse il lassismo morale?
A proposito della prima domanda, credo si possa concordare sul fatto che la persona senza ideali e senza meta finisce presto col vivere una vita senza senso. D’altra parte, va riconosciuto che un ideale antropologicamente insostenibile facilmente finisce col determinare un orientamento negativo della persona. Esattamente tale - antropologicamente insostenibile – appare un ideale della perfezione che rifiuta di realizzarsi e di camminare di pari passo con la positiva coscienza del limite. Quando questa manca, infatti, si innescano meccanismi che rendono inevitabilmente “disumani”, sia a livello psicologico sia sul piano etico. Accogliere il proprio “essere umano” vuol dire, allora, riconciliarsi col proprio essere indigente, senza per questo sentirsi condannati a vivere senza ideali, senza sentirsi condannati a rinunciare al “fascino delle frontiere”. Tra queste, in tale contesto, quella che possiede un fascino maggiormente irresistibile è anche quella più realistica da raggiungere: “divenire umani”.
Venendo al secondo interrogativo – il dubbio cioè che l’accettazione del limite o la coscienza di esso come condizione di apertura, possa aprire la strada al lassismo morale – vorrei chiarire alcuni passaggi. Finora, nel mio ragionamento, ho cercato di sottolineare l’esigenza di riconoscere la contemporanea presenza nell’uomo del senso del limite e del fascino delle frontiere. In altre parole (e con termini un po’ più filosofici), nel modello antropologico che propongo non è possibile affermare una separazione tra l’essere storico ed incarnato dell’uomo e il suo essere trascendente, fatto quindi per autotrascendersi.
Sono convinto, quindi, che chi considera l’accettazione del limite come anticamera obbligata e come strada che sfocia inevitabilmente nel lassismo morale, e comunque nella rinuncia al superamento del limite, poggia la sua affermazione su almeno due presupposti errati. Il primo è che il limite di cui stiamo parlando sia, già di per sé, se non sinonimo, almeno frutto di leggerezza e di mancanza di volontà personale e non, come si è detto, dimensione costitutiva dell’essere umano. Il secondo presupposto errato sta nel ritenere che parlare di coscienza del limite e di accettazione di esso coincida tout court con l’esaltazione del difettoso e con l’elogio dell’errore in quanto tale. Mi pare, a questo proposito, totalmente condivisibile l’osservazione di Bonhoeffer che, in Sanctorum communio, scrive: «Quanto più chiaramente viene riconosciuto il limite, tanto più profondamente la persona entra nella condizione di responsabilità»[2].
4. L’assunzione del limite come occasione di rinnovamento individuale, ecclesiale e sociale
Un’osservazione, quella del pastore luterano, che trova profondo radicamento nell’evento cristiano. Qual è, infatti, il volto di Dio che Gesù ci rivela e che da soli mai avremmo potuto conoscere adeguatamente? E’ il volto di un Padre che usa la sua onnipotenza per amare, che guarisce la disobbedienza con il perdono e non con la punizione, che chiede di farsi poveri perché lui per primo, in Gesù, sceglie la povertà per stare con noi.
La diffusione del cristianesimo è l’evento che più ha rivoluzionato la storia del mondo e il modo di pensare l’humanum. Credere in un Dio che soffre fino alla morte, che è il punto drammaticamente più alto del limite; e credere in un Dio che vince il male assumendo la debolezza altrui introduce una visione che stravolge per sempre le categorie attraverso le quali si pensa il divino. Il comandamento dell’amore, che per il Vangelo riassume tutti i comandamenti, porta a intendere gli ultimi non più come scarti, ma come persone da sollevare e delle quali condividere la sorte. Per questo l’ascolto della parola di Gesù, la meditazione del suo esempio, la contemplazione del mistero della Pasqua, forniscono una luce ineguagliabile sull’uomo e rappresentano un’antropologia del limite già compiuta e nella sua perfezione. A noi sta di coglierne i riflessi per l’oggi e di tradurla nel nostro tempo.
E’ stato sapientemente affermato che «sviluppo e perfezione non sono sinonimi».[3] Questo non significa che ci si debba accontentare, a livello individuale e nella società, di ciò che è mediocre. Non significa neppure che ci si debba appiattire su una moralità che non tende alla perfezione, ma si adagia su un minimo o su una comoda via di mezzo. La non equivalenza di sviluppo e perfezione implica qualcosa di molto più profondo. Essa ha come conseguenza che chi sperimenta qualche forma di difficoltà venga integrato e non scartato; che quanti sono ai margini dello sviluppo siano coinvolti e le loro potenzialità messe a frutto. Una società che fa del limite una risorsa non considera i gruppi e gli Stati per quanto sanno produrre o per le risorse finanziarie di cui dispongono, e tenta anzitutto e con i mezzi di cui realisticamente dispone di risollevare i poveri, per non creare un mondo a due velocità. Lo fa con l’attenzione a tutti i poveri, a quelli che non hanno il lavoro o lo hanno perso, a quelli che provengono da zone più povere ed economicamente arretrate, a quelli che non sono in grado di difendersi perché attendono di nascere e godere della vita.
Anche la Chiesa è sollecitata, da un’antropologia del limite, a rinnovarsi nelle sue strutture, nelle dinamiche decisionali e nelle prassi concrete delle comunità. Le comunità ecclesiali e le associazioni già sono, per il nostro tempo, un mirabile segno della presenza di Dio e della carità che da lui promana. Queste giornate di incontro e riflessione ne sono un esempio. Tuttavia, ancora tanto dobbiamo fare nella via della testimonianza; tanto ancora dobbiamo crescere nel dar vita a dinamiche autenticamente evangeliche e libere, che manifestino in modo sempre più trasparente la carità da cui siamo stati raggiunti. Una Chiesa che fa del limite una risorsa assume lo stile missionario tanto invocato da Papa Francesco, divenendo sempre meno dispensatrice di servizi e sempre più “ospedale da campo”, chinata sugli ultimi, nei quali è racchiusa la più grande ricchezza, nei quali è presente lo stesso Signore, dai quali spera di essere accolta nel Regno di Dio.
Da ultimo, è la vita del singolo che deve essere rivista e ammodernata da una più forte presa consapevolezza del proprio limite. Chi assume il limite alla maniera di cui abbiamo detto sopra, lo sperimenta non solo come sofferenza, che è dimensione costitutiva dell’esistenza umana, ma anche come consolazione. «Beati gli afflitti», insegna Gesù (Mt 5,4), a indicare la ricchezza offerta a chi colga la debolezza come possibilità di abbandonarsi al Padre. Una persona che fa del limite una risorsa, mette da parte l’istinto a difendersi dagli altri, si apre più facilmente alla condivisione e - per chi crede - trova nella preghiera la via di accesso ai beni più grandi.
Conclusione
Un’antropologia del limite non si traduce in un elogio del limite stesso, ma in un’esaltazione dell’essere umano, capace di generare un ideale di perfezione che tenga conto del limite e lo traduca in storicità, concretezza, incarnazione. La prima frontiera che, alla luce dell’ antropologia del limite diviene possibile è quindi – come ho detto -quella di diventare più umani; in un cammino che, per molti di noi nel presente, come per tanti altri nel passato, è coinciso con l’incontro, nella fede, con Gesù Cristo. In Lui, il senso del limite umano trova pienezza di significato e viene “sanato” da ogni sua stortura. Chi lo ha sperimentato è chiamato a darne testimonianza fraterna e rispettosa a chi fatica in questo percorso, alla ricerca di risposte autentiche.
Solo quando la propria vita è condotta alla luce di queste considerazioni; solo quando la nostra vita, consapevole del limite, continua a subire il fascino delle frontiere è possibile riconoscere come vere e a fare nostra l’intensa invocazione di Agostino: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te»[4].
X Nunzio Galantino
Segretario generale della CEI
Vescovo emerito di Cassano all’Jonio
[1] «La felicità di averlo trovato non estingue il desiderio santo, ma lo accresce. Forse che la pienezza del gaudio significa estinzione del desiderio? Anzi, è l’olio che lo alimenta, perché il desiderio è fiamma» (BERNARDO DI CHIARAVALLE, Commento al Cantico dei Cantici, 84, 1)./span>
[2] D. BONHOEFFER, Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della Chiesa, Queriniana, Brescia 1994, 28
[3] R. Peter, Una terapia per la persona umana. Aspetti teorici della Terapia dell’Imperfezione, Cittadella, Assisi 1984, 89.
[4] S. AGOSTINO, Confessioni. 1,1