Vanno, vengono, a differenza delle nuvole di De André, le parole raramente ritornano. Fa tenerezza, perché uscita dalla penna di un bambino di otto anni, la parola neonata che ha fatto il giro del web: uno scolaro di Ferrara ha definito un fiore “petaloso”, la maestra invece di cassare con uno sbaffo di penna rossa ha chiesto lumi alla Crusca e l’Accademia ha detto che, sì, in teoria, potrebbe funzionare una parola così, anche se per il momento non esiste. Domani chissà.
Già, domani chissà, perché le lingue non sono, a meno che non si parli di geroglifici e di scrittura cuneiforme, incise nella pietra: a meno che non siano morte, vivono, mutano, respirano lo spirito dei tempi. Quasi sempre si fanno beffe dei regimi che cercano di dirigerle dall’alto, per forza di legge, come fece l’autarchia mussoliniana mettendo al bando i vocaboli stranieri, anche quando necessari, in spregio al ridicolo nelle alternative più improbabili, non a caso finite male, anche loro, dopo piazzale Loreto.
Anche i baluardi eretti dai puristi spesso sono di carta velina. La storia insegna che l’uso dei parlanti è un fiume in piena inarrestabile, alla fine travolge la diga di chi resiste: lascia come detriti lungo la strada parole che la maggioranza di chi parla e scrive non usa più e si arricchisce di affluenti che arrivano da ogni dove. Spesso, ma non sempre e non solo, dall’estero, per vezzo e per pigrizia certo, ma anche per necessità: "computer", per esempio, è parola inglese, internazionale, arriva in Italia assieme all’oggetto e “calcolatore” non regge la concorrenza. Sarà che la ricerca tecnologica da un pezzo non innova a partire da casa nostra.
Le lingue, preservate dall’amore di chi le usa con passione e consapevolezza, nascono ed evolvono traendo linfa dallo strato che sta sotto e le precede, coltivando relazioni promiscue con altre che premono ai confini (quelli delle lingue si chiamano isoglosse e non sempre coincidono con quelli geografici e ancor meno geopolitici), lasciandosi un poco sovrastare da quelle che si sovrappongono portate da chi arriva e a volte invade (più per predominio culturale che politico).
Le lingue sono democratiche, le persone che le usano ne sono signore e padrone: sono loro che, quasi sempre senza avvedersene, condannano a morte le parole che escono dal loro vocabolario quotidiano e ne accolgono di nuove mutuandole altrove. Dai gerghi, dalle altre lingue, dalle cose nuove che prima non c’erano e che arrivano con un nome impresso, più raramente da sprazzi di consapevole estro inventivo. Qualche volta è possibile scoprire chi ha dato vita a una parola nuova: spesso i vocabolari registrano la prima attestazione, cioè l’autore che l’ha usata per primo in uno scritto, ma il più delle volte è solo la presa d’atto di qualcosa che a voce circolava già da un po’.
Altre volte le parole nascono per analogia, copiando un precedente che già esiste sullo stesso schema: è il processo che il bambino di Ferrara ha applicato spontaneamente all’aggettivo “petaloso” ricalcando il modello degli altri aggettivi, cosiddetti denominali, che terminano in –oso: "ansioso" da "ansia", "peloso" da "pelo", "insidioso" da insidia, "luminoso" dal latino "lumen", che in italiano ha lasciato anche "lume", nome caduto in disuso, pensionato insieme con l’ultimo stoppino a olio, e sopravvissuto poco meno che fossilizzato nell’espressione "a lume di candela". Ha vinto la luce (elettrica) da "lux", più potente e resistente e forse chissà evocativa della potenza dell’inizio di tutto: “Fiat lux”. "Lucioso" potrebbe funzionare, ma non c’è. Forse perché quando la luce ha surclassato il lume nel nostro accendere quotidiano, "luminoso" c’era già e diceva già benissimo il necessario.