Nella notte fra il 6 e il 7 agosto di un anno fa iniziava il drammatico esodo dei cristiani iracheni dalla Piana di Ninive. Dopo la caduta di Mosul nelle mani dello Stato islamico, a Qaraqosh e negli altri centri e villaggi del Kurdistan iracheno, 120mila uomini, donne, bambini sono stati costretti ad abbandonare le loro case, in fretta e furia, sotto la minaccia dei miliziani del Califfato.
«Non scorderò mai il terrore impresso sul volto di decine di migliaia di persone. Erano convinti che l'Isis li avrebbe uccisi». La testimonianza, raccolta dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, è di Rami, un giovane di 22 anni, uno dei cristiani fuggiti ospitati dal centro Mar Elia, il campo profughi gestito dalla Chiesa di Erbil (capitale del Kurdistan iracheno). Quella notte di un anno fa Rami e la sua famiglia dovettero scappare da Qaraqosh insieme ad altri 60mila abitanti, dopo avere lasciato Mosul, diventata preda dei jihadisti, troppo pericolosa per i cristiani.
A un anno di distanza, il 6 agosto 2015, Aiuto alla Chiesa che soffre, organizzazione impegnata in progetti di sostegno alla pastorale della Chiesa nei luoghi dove essa è perseguitata, ha indetto una giornata internazionale di preghiera e riflessione, per ricordare l'anniversario della fuga dei cristiani dall'Iraq. Si può aderire alla campagna su Twitter attraverso gli hashtag #PrayForIraq e #WeAreChristians.
La Chiesa resta il punto di riferimento per i profughi. Nell'ultimo anni Aiuto alla Chiesa che soffre ha realizzato progetti in favore dei cristiani iracheni per un totale di 8 milioni di euro. Ha inoltre stanziato un ulteriore contributo di 2 milioni. La fondazione ha disposto l'accoglienza dei profughi nel "Villaggio Padre Werenfried", costituito da 150 strutture prefabbricate. Tra gli interventi sostenuti, la costruzione di otto scuole per ospitare più di 7.200 alunni: le lezioni sono tenute da insegnanti cristiani costretti alla fuga, le aule sono usate anche per il catechismo e le attività pastorali.