Nessuna fuga dal mondo perché il mondo è la loro terra di missione, la città degli uomini il chiostro universale, l’identità spogliata del cognome perché si è tutte e solo «di Gesù», padrone dell’impossibile, al servizio degli ultimi. Al civico 30 del quartiere delle Case bianche di via Salomone, periferia sud-est di Milano, nel dedalo straniante di appartamenti tutti uguali, ce n’è uno che irradia preghiera e carità, ospitalità e amicizia. Vi abitano, quasi mimetizzate, le Piccole sorelle di Gesù, fedeli al motto della loro fondatrice, suor Magdeleine Hutin: «Vivrai mischiata alla massa umana come il lievito nella pasta».
Una cucina, la sala da pranzo, tre camere di cui una adattata a cappella per pregare. È il carisma dell’essenziale. «Siamo contemplative nel mondo», dice suor, anzi piccola sorella Rita mentre accarezza la croce di legno che porta al collo. Sono in cinque, pagano l’affitto, hanno tutte un lavoro, escono di casa la mattina e rientrano la sera. Pregano, creano legami, aprono la porta a chi bussa per chiedere una preghiera, un aiuto o anche solo un caffè per chiacchierare e sfogarsi. «Quando non ci si conosce», dice Rita, «si cade nella paura e la paura genera degrado. La natura di queste case non porta a fare degli incontri, ma noi dobbiamo desiderarli questi incontri».
IN ATTESA DEL PAPA
Papa Francesco ha scelto questo quartiere di periferia per iniziare la sua visita a Milano il 25 marzo. Qui c’è anche la porzione di mondo scelta dalle Piccole sorelle per vivere in città. Sono presenti dal 1954 quando ancora c’erano le “Case minime” volute dal fascismo.
Le Piccole sorelle di Gesù fanno parte di quella ventina di congregazioni maschili e femminili nate nel secolo scorso dalla testimonianza e dal martirio di Charles de Foucauld, che fu prete, eremita e missionario sui generis. Un monaco senza monastero, un cercatore di Dio che a chiunque passasse dal suo villaggio nel deserto del Sahara, cristiani, musulmani, ebrei e pagani, si presentava come «fratello universale» e offriva a tutti ospitalità. Poi quel carisma di «fratel Carlo» ha cominciato ad abitare il mondo, smentendo un pregiudizio duro a morire che vede spesso le religiose come persone che si ritirano dalla vita. «Ti rendi conto davvero», chiede suor Magdeleine nel suo testamento spirituale rivolgendosi alle Piccole sorelle, «di ciò che comporta, per una religiosa, questa vocazione a vivere povera in mezzo ai poveri e mischiata alla massa umana, come il lievito nella pasta?». La risposta la dà piccola sorella Giuliana, che è qui da cinque anni e lavora in una casa dove vengono accolti i familiari dei malati che arrivano da lontano per curarsi: «Davanti a Dio portiamo tutti i nostri amici, molti vicini anche musulmani vengono e ci chiedono di pregare per loro».
È un via vai di gente questa casa, dove, con infaticabile energia, si creano e ricreano spazi e occasioni di una socialità senza la quale, soprattutto in quartieri difficili come questo, la diversità diventerebbe conflitto, odio, massacro quotidiano tra penultimi e ultimi. Suor Rita, che lavora per una cooperativa di pulizie all’Istituto dei tumori, è a Milano da dieci anni: «Questo non è il peggior quartiere della città», spiega. «Ci sono periferie molto peggiori, dove dominano violenza e degrado».
Anche Carmela, a Milano da quattro anni, lavora in una ditta di pulizie. Sofia è una novizia, l’unica, lavora in una mensa scolastica ed è arrivata l’estate scorsa come Valeria che fa le pulizie nelle famiglie. Non sono una congregazione ma una fraternità. Di nome e di fatto. Perché hanno un senso concreto del vivere, queste religiose che spesso vanno in luoghi da dove tutti scappano. Accudiscono, pregano, aiutano con una presenza viva e un coraggio notevole.
COME DONNE QUALSIASI
Si spogliano di tutto, di pregiudizi e pure dell’abito: «Non lo usiamo più da vent’anni perché il nostro desiderio è vestirci come le donne del luogo». Quando sono arrivate a Milano si sono messe a cercare lavoro tra una girandola infinita di agenzie interinali e annunci. Piccola sorella Giuliana, prima di arrivare alle Case bianche, è stata in Burkina Faso e in Niger, tra le popolazioni nomadi tubu: «Eravamo una comunità dove si condividevano pane e lacrime». La “casa” di Rita, invece, erano i campi nomadi di mezza Italia, da Bologna a Verona, da Mantova fino a Crotone: «Quando arrivavamo con il nostro furgoncino e chiedevamo ospitalità era difficile», racconta. «Poi ho scoperto che anche tra le quelle baracche c’è una grande umanità, un senso concreto dell’ospitalità».
Creare ponti è la loro missione: «Durante le feste cristiane e musulmane ci scambiamo gli auguri», dice suor Rita. «I problemi non mancano, però cerchiamo di mettere in comunione i bisogni e questo ci permette di vivere una relazione profonda con le persone. Noi per prime a volte ci stupiamo di alcuni piccoli miracoli d’incontro». Anziani soli, stranieri disorientati, famiglie disastrate. Sono questi i brandelli d’umanità su cui scommettono ogni giorno mescolandosi con sapiente carisma nell’abisso di ingiustizia e dolore. «Il nostro desiderio», ripetono, «è che tutta la nostra giornata diventi preghiera».
Foto di Giovanni Panizza