A 11 anni restare senza capelli, in pochi giorni, per via di una forma di alopecia, è uno shock. Sarebbe dura anche a un’altra età, ma a 11 anni di più. Se giochi a calcio, ci vuole niente perché gli avversari – secondo un costume sgradevolissimo ma consolidato - si attacchino a quello che trovano per farti perdere la concentrazione e magari la testa (chi non ricorda Zidane e Materazzi in finale mondiale?): in questo caso gridargli pelato alla prima occasione è stato sfondare una porta spalancata.
Il ragazzino, che gioca in provincia di Brescia e non ha nome perché va protetto, a differenza dell’illustre collega non ha distribuito testate né calcioni, ma c’è rimasto male abbastanza da farsi venire i lucciconi agli occhi e decidere che per lui così bastava, che non se la sentiva di continuare la partita e voleva uscire dal campo. L’allenatore, da bravo allenatore, prima ha convinto il suo giocatore in erba a finire il suo compito senza dar peso alle offese, ma poi ha rimuginato sulla questione chiedendosi che cosa potesse fare di veramente utile, nel suo ruolo, per rafforzare il messaggio e perché quel ragazzino si sentisse meno solo con il suo problema e perché gli altri (avversari e compagni) capissero che a parole si può far male davvero e che in una partita di pallone non vale proprio tutto.
Si è convinto che un gesto simbolico, in questo caso, avrebbe funzionato meglio della più convincente delle prediche e, dopo una seduta dal barbiere, all’allenamento successivo si è presentato nello spogliatoio “pettinato” come il suo giocatore in difficoltà: capelli a zero e cuffia in testa: così quando si comincia a giocare i pelati ora sono due. Per farsi meglio capire da tutti ha anche spiegato ai suoi ragazzi che fare squadra a quell’età regala relazioni che durano per sempre e che i suoi migliori amici sono ancora oggi i ragazzi con cui giocava a calcio da bambino.
Se ci fosse una Panchina d’oro per allenatori giovanili e dilettanti, bisognerebbe proprio pensare a questo signore.