Il nome di Pietro Maso evoca subito due cose: un crimine familiare tra i più efferati della storia italiana e una fama che l’ha inseguito come una condanna anche dopo aver scontato la pena: ventidue anni di carcere per aver sprangato a morte, insieme a tre amici, la madre Maria Rosa e il padre Antonio a Montecchia di Crosara, Verona, il 17 aprile del 1991. Il motivo? Mettere le mani sull’eredità paterna. Maso aveva 19 anni. C'era ancora la lira, non esisteva Internet, si era da poco insediato il settimo e ultimo governo Andreotti. Un’altra Italia, un’altra epoca. Nell’aprile 2013, appena uscito dal carcere milanese di Opera, tra le polemiche per una pena che molti avrebbero voluto più lunga, Maso ha scritto una lettera a papa Francesco per, parole sue, «scusarmi di quello che ho fatto 25 anni fa e pregare per la pace». E dopo qualche giorno è squillato il telefono: «Sono Francesco, papa Francesco». La telefonata che non t’aspetti: spiazzante come la personalità di questo Pontefice. «Io ero il Male», ha detto Maso in un’intervista al settimanale Chi in cui racconta i particolari. «Eppure Papa Francesco ha avuto compassione di me. Gli ho scritto una lettera che gli è stata consegnata dal mio padre spirituale, monsignor Guido Todeschini. E dopo pochi giorni il Papa mi ha telefonato. Lui e don Guido sono persone sante».
Nel bene e nel male, la fama, per Pietro Maso, è una condanna sottile. Perché impedisce che ci si dimentichi di lui, che scenda finalmente l’oblio sul suo delitto. A lui si sono interessati scrittori e artisti, nel 1994 Luciano Manuzzi girò il film I Pavoni ispirandosi alla sua vicenda. Lui stesso, Maso, ha scritto nel 2013 un libro con la giornalista Raffaella Regoli. Titolo: Il male ero io. «Ipertrofia narcisistica», decreterà la perizia psichiatrica di Vittorino Andreoli che al Caso Maso ha dedicato poi un libro, uscito nel 1994. «Padre e madre percepiti solo come un salvadanaio da cui prelevare quando serviva, e da rompere se il bisogno lo richiedeva», spiegava lo psichiatra.
Ai primi processi, l’assassino si presentava in blazer blu, camicia bianca aperta e un foulard scuro a pois bianchi portato quasi con aria di sfida. Confesserà due giorni dopo. Sguardo freddo e beffardo, raccontano le cronache dell’epoca, che gli valsero subito centinaia di lettere di fan e ammiratrici. Questa, almeno, è la superficie. E sotto? Quanto è cambiato Pietro Maso? Ora si è trasferito in Spagna, dove vuole aprire una comunità di recupero. «Voglio accogliere chi ha sbagliato ed è in mezzo a una strada», ha raccontato sempre a Chi. «Voglio dare un senso diverso alla mia vita. Solo chi è straniero capisce chi è straniero. Solo chi è in carcere capisce chi ci è stato».
S’è avvicinato alla fede, Pietro. Lo ha fatto negli anni del carcere. Un diploma in ragioneria, il poster del Milan alla parete, una parte in un Jesus Christ Superstar per detenuti dove lui faceva l'angelo e un rosario al collo, simbolo di una conversione guidata dal suo padre spirituale, don Guido Todeschini, il direttore di Telepace che il 10 ottobre del 2010 lo ha unito in matrimonio con Stefania, una ragazza milanese conosciuta durante un permesso e dalla quale ora si è separato. A monsignor Todeschini, racconta lui ora, «l'unico che mi tese una mano, Papa Giovanni Paolo II disse: “Vai avanti”».
Prima dell’orrore, Maso faceva il chierichetto in parrocchia a Montecchia, terra di vigneti e di ciliegi buoni. Poi un anno in seminario e tre anni nell’istituto agrario mollato per i primi lavoretti. È bello, un po’ vanesio, sa di piacere. Il 17 aprile 1991 è un mercoledì, alle 23.30 papà Antonio e mamma Maria Rosa rientrano a casa dopo una riunione in parrocchia. Li attende la morte. Ha il volto del loro figlio che ora dice: «Non li ho uccisi per i soldi perché i soldi li avrei avuti lo stesso».