«Se Dio mi chiedesse: “Oscar,
posso ridarti le gambe: le
vuoi?”, io dovrei rifletterci.
Non risponderei subito di sì. Perché in
realtà non mi sento affatto fregato dalla
vita. Se avessi avuto le gambe, non sarei
diventato l’uomo che sono, credo che
non avrei avuto questo stimolo a superare
me stesso e diventare un atleta. Sarei
come un sacco di altri ragazzi, che si
impigriscono. Forse non avrei mai scoperto
il mio potenziale e avrei avuto
una vita più ordinaria».
Il racconto della favolosa vita di Oscar
Pistorius, uomo e atleta fuori dal comune,
comincia con queste parole, che il lettore
troverà nel libro Dream Runner - In
corsa per un sogno pubblicato da Rizzoli
proprio in questi giorni e che Famiglia
Cristiana presenta in anteprima ai suoi
lettori.
Parole toccanti e profonde, riflesso
di una storia che ha il sapore della favola,
del miracolo diventati possibili
non nonostante l’handicap, ma, paradossalmente,
anche grazie all’handicap.
Oscar Pistorius nasce il 22 novembre
del 1986 a Johannesburg, in Sudafrica.
È il padre il primo a rendersi conto che
qualcosa non va: al neonato manca il
perone, è necessaria l’amputazione. A
questo punto entra in gioco uno dei protagonisti
di questa favola dei nostri tempi,
la famiglia Pistorius, per la quale
l’espressione “non posso” è bandita dal
vocabolario. Papà e mamma – il fratello
maggiore Carl era piccolo, la sorellina
Aimée arriverà dopo – prendono in mano
la situazione senza vittimismo, cercano
le soluzioni migliori, a 17 mesi regalano
al figlio le sue prime protesi, ma
soprattutto gli insegnano a considerarsi
un bambino normale.
«Prima ancora di
imparare a parlare», ci racconta Oscar,
«ho capito che il concetto di normalità
o disabilità sono del tutto relativi. Da solo,
non avrei mai maturato questa convinzione:
lo devo alle persone che mi sono
state vicine, in particolare, ai miei genitori,
a mio fratello e mia sorella».
La madre gli scrive una lettera, da leggere
quando fosse diventato grande:
«Chi perde davvero non è chi arriva ultimo
nella gara. Chi perde davvero è chi resta seduto a guardare, e non prova
nemmeno a correre».
Oscar la prende alla
lettera e diventa «un selvaggio». Gioca,
corre, si diverte. Ogni tanto le protesi
si rompono e bisogna sostituirle.
L’attività sportiva è un pilastro del sistema
educativo delle scuole frequentate
dal ragazzo. «Lo sport mi ha sempre
spinto a crescere, a superare i miei limiti
», dice Oscar, «per questo penso che tutti
dovrebbero praticarlo fin da piccoli».
Si appassiona al rugby e alla pallanuoto,
mentre l’atletica lo attira molto meno.
Mette un’energia speciale in quello che
fa, vuole dimostrare a sé stesso e al mondo
che quel vuoto, riempito da due protesi,
non gli impedisce di assecondare i
suoi sogni.
«Se fossi nato “perfetto” non
avrei mai fatto tutti questi progressi.
L’handicap mi ha reso più forte, mi ha
dato qualcosa in più, piuttosto che qualcosa
in meno: la volontà conta più del
corpo che il destino ti assegna. Tanti ragazzi
normodotati hanno tutto dalla natura,
ma sono senza volontà
e non si impegnano».
Arrivano momenti duri.
Nel marzo del 2002 perde la
madre, a cui era affezionatissimo.
Nel giugno dell’anno
seguente, giocando a rugby,
subisce un grave infortunio.
«Ho pensato che da quel momento
in poi la mia vita superattiva,
in cui lo sport era tutto, avrebbe
subìto una svolta». E così è stato, ma
non nel senso in cui temeva Oscar.
La fisioterapia lo costringe a lunghe
sedute di atletica, l’odiata atletica! Scherzi
del destino... Così, per puro caso, Pistorius
si scopre dotato di qualità straordinarie.
Su speciali protesi da corsa, mentre
si allena per la riabilitazione realizza
tempi eccezionali, veri e propri record
per lo sport paralimpico
(per atleti disabili).
Da quel momento
tutto accade molto in
fretta. Solo otto mesi
dopo gareggia alle
Paralimpiadi di Atene 2004 nei
200 metri. Pieno di paura, annichilito
da mostri sacri dello sport, stecca la partenza,
ma riesce comunque a vincere, stabilendo il nuovo record di categoria...
Un trionfo del genere avrebbe appagato
chiunque, non Oscar Pistorius. «A
quel punto mi è venuta voglia di confrontarmi
con gli atleti normodotati, perché
non mi considero né un atleta disabile
né un atleta normodotato, bensì un
atleta e basta, e come tale gareggio con
chiunque, cercando di superare ogni
volta il mio limite. Preferisco arrivare secondo
avendo migliorato il mio tempo,
che vincere con un tempo peggiore al
mio record personale».
Il 13 luglio del
2007 anche questo sogno diventa realtà:
Oscar è in Italia, a Roma, per gareggiare
sui 400 metri in una competizione non
riservata ai disabili. E arriva secondo!
Aquel punto, però, il mondodell’atletica
comincia a guardarlo con sospetto. La
federazione internazionale commissiona
uno studio all’Università di Colonia, dal
quale emergerebbe che l’utilizzo di protesi
da corsa garantisce un vantaggio tecnico.
Si scatenano polemiche e dibattiti:
chi tira un sospiro i sollievo, chi s’indigna.
E Oscar? Fa ricorso.
La recente sentenza
del Tribunale di Losanna, che riconosce
la parzialità dei test di Colonia (avevano
dimenticato i possibili svantaggi
delle condizioni di corsa di Pistorius), riapre
i giochi: Pistorius può competere con
gli atleti normodotati. «Non è stata una
mia vittoria personale», dice Oscar, «ma
una vittoria di tutti, dello sport in quanto
tale, contro ogni discriminazione».
Il sogno continua. Pistorius in queste
settimane sarà a Milano e a Roma per
partecipare ad alcuni meeting di atletica,
dove cercherà di realizzare i tempi
necessari per qualificarsi alle Olimpiadi
di Pechino. «È una sfida molto difficile.
Mi sto allenando duramente e pregando».
Comunque vada, è un campione.