Il ministro del lavoro Poletti è scivolato su una buccia di banana. Gli è scappato detto agli studenti di una scuola che «si creano più opportunità di lavoro andando a giocare a calcetto che mandando curricula».
Il problema non è tanto la battuta infelice – che non può sintetizzare un lungo incontro certo più articolato - quanto il concetto che rischia di legittimare, parlando di corda in casa dell’impiccato. In Italia, infatti, l’84% per cento (dati Eurostat 2016) delle persone cerca lavoro tramite amici e parenti e solo il 26% tramite centri per l’impiego pubblici (media Ue/28 47%) e, quel che è peggio, il 71% lo cerca soltanto tramite parenti e amici (in Germania le percentuali sono invertite).
In questo contesto non è difficile misurare il rischio – quand’anche ci fosse stata la buona intenzione di valorizzare relazioni sane - di far passare l’idea che la rete di conoscenze, con tutto quello che ne può conseguire di negativo in tema di scarsa trasparenza, raccomandazione, familismo amorale, vinca sempre sulla conoscenza: cioè sullo studio, sulla formazione, sull’esperienza, cioè su ciò che compone le capacità professionali effettive e soprattutto certificabili.
In tutta onestà da un ministro che ha giurato fedeltà alla Repubblica ci si aspetterebbero risposte diverse: più aderenti al dettato costituzionale, e in particolare all’articolo 1 (fondata sul lavoro) – certo impervio di questo tempi – e soprattutto all’articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando dhfi fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Concetti che dovrebbero essere faro di ogni ministro del lavoro, e a maggior ragione per il ministro del lavoro di un Governo di centrosinistra, che, d’accordo, non avrà soluzioni facili per estrarre dal cilindro posti di lavoro, ma che nemmeno può rischiare di legittimare con una battuta i vizi di un Paese che – dopo averli formati bene - invece di valorizzare i suoi giovani talenti rischia di demotivarli, perché troppo spesso davvero chi può vantare le conoscenze giuste ce la fa e chi può contare solo sulle proprie capacità si rassegna a emigrare.
E, se è vero che in passato proprio Poletti si lasciò già scappare quell’altra battuta infelice: «I giovani vanno all’estero? Alcuni è meglio non averli tra i piedi», i maligni potrebbero sospettare che tutto si tenga nell’idea sottesa alle parole dal sen fuggite: anche perché se si lasciano andar via i capaci in grado di battersi nella concorrenza all'estero e si tengono quelli con le conoscenze giuste si fa presto a fare della Repubblica fondata sul lavoro, una Repubblica fondata sull’aiutino, dove l’unico mestiere che non conosce crisi rischia di essere il faccendiere.