Forse non c’è stato poeta che al pari di Mandel’štam abbia espresso (e in parte profetizzato) la ferocia del secolo, il Novecento. Abbarbicato alla creazione poetica come a una zattera, ha attraversato gli anni del totalitarismo sovietico senza rinunciare a fissare gli occhi sulla Medusa dell’epoca.
Per lui la poesia è stata una pretesa quasi assoluta, una sorta di «legame che mai si potrà sciogliere / fra tutto ciò che vive nel creato». La poesia – scrive Mandel’štam – non è imitazione della natura, ma sua ricreazione; la durata della poesia è durata vitale, che amplia il tempo.
Sono osservazioni che Mandel’štam fa nella sua Conversazione su Dante, dettata nel 1933 all’amata moglie Nadežda. Per leggere la Commedia, Mandel’štam aveva imparato l’italiano, «lingua del tutto assurda, lingua dolce-salata», come scrive in una poesia.
A Dante il poeta russo era unito dal sentimento dell’esilio. Un esilio in patria, il suo, portato fino all’estremo pedaggio della morte nei Gulag staliniani. Non per nulla nel 1922, a Berlino, aveva pubblicato una raccolta intitolata Tristia, come il libro ovidiano dell’esilio.
Ma a Dante Mandel’štam era unito prima di tutto dalla percezione della poesia come creazione organica, come flusso, energia. Con questo strumento affilato e potente – la parola – Mandel’štam costeggia l’epoca del potere folle, il mare nero del secolo: «Chi potrà, mia epoca, mia belva, / fissarti nelle pupille un istante / e di due secoli agganciare le vertebre / incollandole con il proprio sangue?»; «Il fragile calendario della nostra èra si approssima alla fine»; «Dietro di me avverto il balzo dell’èra sgozzalupi»; «Sto nel cuore dell’epoca, ho di fronte / una via incerta, e il tempo crea miraggi»…
Mandel’štam è stato un altro dei poeti fulminati dalla Rivoluzione:
entusiasta di quella di Febbraio, lo fu molto meno di quella di Ottobre.
Guardato con sospetto da molto tempo, Mandel’štam va incontro alla
propria condanna con la poesia satirica su Stalin, «il montanaro del
Cremlino», dalle dita tozze e grasse «come vermi», dagli «occhiacci da
blatta».
È il novembre 1933: l’anno seguente viene arrestato, poi
mandato al confino. Nel 1937 tenta di scrivere un’ode allo stesso
Stalin, poi ripudiata, sebbene non propriamente servile. Nel ’38 subisce
la deportazione in Siberia e viene imprigionato in un campo di
transito, dove muore nel mese di dicembre.
La moglie salva molte delle
poesie dell’ultimo periodo, destinate ad essere pubblicate postume (ma
la piena riabilitazione del poeta sarà assai tardiva).
La poesia di Mandel’štam non oppone soltanto rifiuti. Essa fa brillare a
lampi la meraviglia incancellabile del mondo: «Per qualche tempo ancora
proverò meraviglia / del mondo, dei bambini, della neve, / ma come una
strada è aperto il mio sorriso, / non docile, non servo…».
Alle
traduzioni italiane esistenti (fin qui abbiamo citato quella di Remo
Faccani) si aggiunge ora un omaggio reso a Mandel’štam da Paolo
Ruffilli: il poeta italiano ha voluto compiere una scelta di testi,
farli precedere da un’introduzione e tradurli, con la mediazione però –
non conoscendo il russo – della versione inglese (Osip Mandel’štam, I
lupi e il rumore del tempo, Biblioteca dei Leoni, 2013, pp. 96, euro
12,00).
Ad aprire l’antologia è una poesia del 1908: «Leggere solo libri per
l’infanzia, / prediligere pensieri da bambini, / trascurando tutto ciò
che è grande, / per lasciare la tristezza che mi prende».