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lunedì 24 marzo 2025
 
 

Olimpiadi e terrorismo, una brutta storia

22/06/2013  Il calcio è riuscito quasi sempre a tenersi fuori dai grandi drammi sociali, mentre i Giochi olimpici sono stati coinvolti in modo pesante.

Chi vince, fra il calcio e il resto dello sport, quanto a forza storica, cosmica, orgogliosa, aristocratica, anche proterva di infischiarsene degli eventi che pure ogni tanto cercano di penetrare anzi invadere e sfruttare il mondo delle manifestazioni sportive, di inquinare il sano e santo culto degli atleti e delle squadre, la religione del risultato e della gloria conseguente, di turbare magari con povere storie di povera gente la quies, la pax di un mondo a priori pulito, autosufficiente, nobile, sereno, giusto?

Fra immensi stupori in Brasile (sì, in Brasileeeee…) il calcio viene usato in questi giorni come cassa di risonanza di una vasta protesta popolare contro i guasti da primo benessere, che si traduce paradossalmente (o no?) in maggiore povertà per i suoi teorici fruitori, perché l’aumento dei bisogni è subito repente ed è subito lancinante. Ci sono pochi pochissimi esempi di uso diciamo sociale del pallone a scopo di protesta, con l’evento come pretesto di partenza. Storicamente più onesto, nel senso di più usato senza ricorso eccessivo a rimedi oppiacei o a complicità assortite, il resto dello sport.

L’Olimpiade ha patito e mostrato addirittura il terrorismo più spinto, quello nel cuore dei Giochi di Monaco 1972, mentre sinora il grande mondo del terrore e comunque il mondo del grande terrore hanno lasciato in pace il calcio, come per paura della reazione popolare. In Messico, nazione che funge bene da cartina al tornasole per tanta storia dello sport, c’è stata la protesta dei giovani, degli studenti contro la mancanza di libertà, alla vigilia dei Giochi olimpici 1968, e lo stesso esercito l’ha stroncata, con tantissimi morti e sotto accuse mondiali. Sempre lì, nel 1986, vigilia del Mundial di calcio, l’insorgere della gente affamata di una mostruosa città satellite della capitale, piena di miserie ma dotata di nuovissimo stadio calcistico, chiedendo “frijoles, non goles”, fagioli e non gol, un poco lo stesso tipo di proteste del Brasile adesso, è stato risolto con poche manganellate della polizia.

Complici di Videla

La stampa mondiale, che aveva dato abbastanza nel 1968 risalto all’eccidio preolimpico nella piazza delle Tre Culture a Città del Messico, anche perché era difficile ignorarlo, ha quasi taciuto quella protesta della vigilia del Mundial calcistico 1986. In linea di massima, la stampa sportiva è stata regolarmente complice delle grandi organizzazioni, che in tutto lo sport hanno voluta garantiti ad ogni costo, ad ogni prezzo la pace, la serenità, il “tutto va bene”, il fluire degli eventi come da programma. Il giornalismo sportivo ha coltivato sempre una sorta di suo diritto a godersi in santa pace l’avvenimento, e a farlo godere ai lettori nella sua semplice chiarezza, senza orpelli di sorta.

Sino alla mostruosa complicità del 1978 in Argentina per il Mundial del calcio, quando i crimini di Videla e dei suoi militari erano già conosciuti, o comunque erano facilmente scopribili ed evidenziabili in una nazione che ogni giorno riscriveva anche pubblicamente le sue storie di sangue, eppure tutto filò ufficialmente bene, vinse il titolo la squadra di casa, si celebrò la festa popolare, si ignorarono i lamenti di chi pativa sotto la dittatura, si ignorò persino la presa di posizione di alcuni coraggiosissimi calciatori argentini, che avevano rinunciato alla Nazionale rischiando la pelle. Personalmente non stavamo là, in quei giorni dell’estate australe, ma avevano dato il nostro contributo alla complicità quando, in gennaio, messi al muro dagli sgherri di Videla, in una viuzza di Buenos Aires, insieme con Bearzot e Sivori, accettammo di non scrivere niente di quella brutale e immotivata richiesta di documenti, per non turbare l’ambiente alla vigilia del sorteggio dei gironi.

Lo sport agli sportivi è stato sempre uno slogan efficiente, credibile, funzionante. Lo sport sotto la campana di vetro: ci volevano i feddayin del crimine per mandarla in frantumi nel 1972 a Monaco. I “granaderos” dell’esercito a Città del Messico 1968 agirono con meno problemi, l’opinione pubblica mondiale fu informata parzialmente e, come dire?, di striscio, da giornalisti che pure la gioventù studentesca della capitale cercava per raccontare il massacro, le varie delegazioni non dissero niente, a parte quella italiana che, onore al merito, espresse una sua vaga preoccupazione. E la stampa tutta pensò di farsi uno shampoo alla coscienza enfatizzando nel Giochi di quell’anno la protesta dei neri dell’atletica USA, Smith e Carlos col pugno guantato nero alzato contro il razzismo sanguinoso di quei giorni a casa loro, durante la premiazione dei 200 metri.

Già, il razzismo. Il calcio è contro il razzismo, se lo può permettere, fa soltanto quello che deve fare. Meglio, comunque, in questa battaglia il calcio, che il resto dello sport, che ha subìto per non dire praticato il razzismo per anni. E se dal 1964 al 1992 il Sudafrica, che aveva l’apartheid scritto nella costituzione, venne escluso dai Giochi olimpici, si deve pur sempre ricordare che tranquillissimamente il tennis, il rugby e il golf del Sudafrica (tre sport non olimpici, si fece notare ipocritamente) tennero rapporti agonistici continui con tutto il resto del mondo, intanto che sulla Ferrari il sudafricano Scheckter correva e vinceva il titolo iridato (l’Italia ha anche vinto la Coppa Davis 1976 di tennis nel Cile di Pinochet, ma non c’era nessuna restrizione ufficiale) .

D’altronde anche quest’anno la Formula 1 ha corso un Gran Premio mondiale in Bahrain senza tenere cono delle proteste della vessata gente locale, che ha persino accusato lo sport di servire al potere per far passare, con i suoi clangori, in secondo piano altri problemi, e intanto invocare (cioè imporre) ordine e quiete. E, tanto per completare il ping pong fra i due mondi dello sport, il pallone e il resto, quando a Montréal, vigilia dei Giochi 1976, le delegazioni di trentadue stati dell’Africa lasciarono il villaggio olimpico per protesta contro la presenza dei neozelandesi che nel rugby intrattenevano rapporti lo sport dell’apartheid, larga parte della stampa sportiva internazionale disse che questi africani esageravano un poco.
 

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