Chi vince, fra il calcio e il resto dello sport, quanto a forza storica, cosmica, orgogliosa, aristocratica, anche proterva di infischiarsene degli eventi che pure ogni tanto cercano di penetrare anzi invadere e sfruttare il mondo delle manifestazioni sportive, di inquinare il sano e santo culto degli atleti e delle squadre, la religione del risultato e della gloria conseguente, di turbare magari con povere storie di povera gente la quies, la pax di un mondo a priori pulito, autosufficiente, nobile, sereno, giusto?
Fra immensi stupori in Brasile (sì, in Brasileeeee…) il calcio viene usato in questi giorni come cassa di risonanza di una vasta protesta popolare contro i guasti da primo benessere, che si traduce paradossalmente (o no?) in maggiore povertà per i suoi teorici fruitori, perché l’aumento dei bisogni è subito repente ed è subito lancinante. Ci sono pochi pochissimi esempi di uso diciamo sociale del pallone a scopo di protesta, con l’evento come pretesto di partenza. Storicamente più onesto, nel senso di più usato senza ricorso eccessivo a rimedi oppiacei o a complicità assortite, il resto dello sport.
L’Olimpiade ha patito e mostrato addirittura il terrorismo più spinto, quello nel cuore dei Giochi di Monaco 1972, mentre sinora il grande mondo del terrore e comunque il mondo del grande terrore hanno lasciato in pace il calcio, come per paura della reazione popolare. In Messico, nazione che funge bene da cartina al tornasole per tanta storia dello sport, c’è stata la protesta dei giovani, degli studenti contro la mancanza di libertà, alla vigilia dei Giochi olimpici 1968, e lo stesso esercito l’ha stroncata, con tantissimi morti e sotto accuse mondiali. Sempre lì, nel 1986, vigilia del Mundial di calcio, l’insorgere della gente affamata di una mostruosa città satellite della capitale, piena di miserie ma dotata di nuovissimo stadio calcistico, chiedendo “frijoles, non goles”, fagioli e non gol, un poco lo stesso tipo di proteste del Brasile adesso, è stato risolto con poche manganellate della polizia.
Complici di Videla
La stampa mondiale, che aveva dato abbastanza nel 1968 risalto
all’eccidio preolimpico nella piazza delle Tre Culture a Città del
Messico, anche perché era difficile ignorarlo, ha quasi taciuto quella
protesta della vigilia del Mundial calcistico 1986. In linea di massima, la stampa sportiva è stata regolarmente complice delle grandi organizzazioni, che
in tutto lo sport hanno voluta garantiti ad ogni costo, ad ogni prezzo
la pace, la serenità, il “tutto va bene”, il fluire degli eventi come
da programma. Il giornalismo sportivo ha coltivato sempre una sorta di
suo diritto a godersi in santa pace l’avvenimento, e a farlo godere ai
lettori nella sua semplice chiarezza, senza orpelli di sorta.
Sino alla mostruosa complicità del 1978 in Argentina per il Mundial
del calcio, quando i crimini di Videla e dei suoi militari erano già
conosciuti, o comunque erano facilmente scopribili ed evidenziabili
in una nazione che ogni giorno riscriveva anche pubblicamente le sue
storie di sangue, eppure tutto filò ufficialmente bene, vinse il titolo
la squadra di casa, si celebrò la festa popolare, si ignorarono i
lamenti di chi pativa sotto la dittatura, si ignorò persino la presa di
posizione di alcuni coraggiosissimi calciatori argentini, che avevano
rinunciato alla Nazionale rischiando la pelle. Personalmente non stavamo
là, in quei giorni dell’estate australe, ma avevano dato il nostro
contributo alla complicità quando, in gennaio, messi al muro dagli
sgherri di Videla, in una viuzza di Buenos Aires, insieme con Bearzot e
Sivori, accettammo di non scrivere niente di quella brutale e immotivata
richiesta di documenti, per non turbare l’ambiente alla vigilia del
sorteggio dei gironi.
Lo sport agli sportivi è stato sempre uno slogan efficiente, credibile, funzionante. Lo sport sotto la campana di vetro: ci volevano i feddayin del crimine per mandarla in frantumi nel 1972 a Monaco. I
“granaderos” dell’esercito a Città del Messico 1968 agirono con meno
problemi, l’opinione pubblica mondiale fu informata parzialmente e, come
dire?, di striscio, da giornalisti che pure la gioventù studentesca
della capitale cercava per raccontare il massacro, le varie delegazioni
non dissero niente, a parte quella italiana che, onore al merito,
espresse una sua vaga preoccupazione. E la stampa tutta pensò di farsi
uno shampoo alla coscienza enfatizzando nel Giochi di quell’anno la
protesta dei neri dell’atletica USA, Smith e Carlos col pugno guantato
nero alzato contro il razzismo sanguinoso di quei giorni a casa loro,
durante la premiazione dei 200 metri.
Già, il razzismo. Il calcio è contro il razzismo, se lo può
permettere, fa soltanto quello che deve fare. Meglio, comunque, in
questa battaglia il calcio, che il resto dello sport, che ha subìto per
non dire praticato il razzismo per anni. E se dal 1964 al 1992 il Sudafrica, che aveva l’apartheid scritto nella costituzione, venne escluso dai Giochi olimpici, si
deve pur sempre ricordare che tranquillissimamente il tennis, il rugby e
il golf del Sudafrica (tre sport non olimpici, si fece notare
ipocritamente) tennero rapporti agonistici continui con tutto il resto
del mondo, intanto che sulla Ferrari il sudafricano Scheckter correva e
vinceva il titolo iridato (l’Italia ha anche vinto la Coppa Davis 1976
di tennis nel Cile di Pinochet, ma non c’era nessuna restrizione
ufficiale) .
D’altronde anche quest’anno la Formula 1 ha corso un Gran Premio
mondiale in Bahrain senza tenere cono delle proteste della vessata gente
locale, che ha persino accusato lo sport di servire al potere per
far passare, con i suoi clangori, in secondo piano altri problemi, e
intanto invocare (cioè imporre) ordine e quiete. E, tanto per completare
il ping pong fra i due mondi dello sport, il pallone e il resto, quando
a Montréal, vigilia dei Giochi 1976, le delegazioni di trentadue stati
dell’Africa lasciarono il villaggio olimpico per protesta contro la
presenza dei neozelandesi che nel rugby intrattenevano rapporti lo sport
dell’apartheid, larga parte della stampa sportiva internazionale disse
che questi africani esageravano un poco.