dall'inviato a Genova (foto di Paolo Siccardi - WALKABOUT)
Guardi il ponte ormai finito e pensi che possiamo farcela. Il vuoto dell’orizzonte sul Polcevera è stato colmato. Il dolore di Genova no. Un paradosso per questa città divenuta un modello per il resto d’Italia: non è mai stata così elogiata, non è mai stata così depressa. «Non riusciamo a festeggiare perché su quel ponte potevo esserci io, mia figlia, uno di noi», dice un signore che prende il caffè in un bar sotto il Morandi, in via Fillak. «Prima non la conosceva nessuno, neanche i genovesi», ride amaro Giuseppe Rodinò, ex sfollato. La sua casa, all’incrocio con via Porro, non c’è più. Abbattuta. Al suo posto c’è un escavatore che sta spianando il terreno per preparare la "Radura della memoria", il monumento (provvisorio) voluto dal Comune con 43 alberi, il numero delle vittime. I familiari si ritroveranno qui, non lassù. Non subito, però: prima dell’inaugurazione ufficiale incontreranno il presidente della Repubblica Mattarella in Prefettura.
Attorno all’ex ponte Morandi è un frenetico viavai. Urla di capocantieri, i camion che completano il collaudo statico, gli operai che neppure il coronavirus ha fermato. Settecento giorni dopo quella mattina, un crollo che sembrava irreale, Genova ha il suo nuovo ponte: dopo l’inaugurazione del 3 agosto, sarà percorribile dal 5. È intitolato a San Giorgio, che apparve ai crociati al termine di una battaglia in cui l’intervento dei genovesi era stato decisivo per la vittoria contro i turchi. Orgoglio della Genova che fu.
Ora davanti al ponte, destinato a diventare il biglietto da visita del Paese in un momento drammatico a causa della pandemia, si tira un sospiro di sollievo. I genovesi assomigliano alla loro città: non sono facili. Hanno stemperato la loro proverbiale durezza caratteriale e ideologica in un pragmatismo che gli consenta di ripartire. Due milioni di euro al giorno: tanto ha perso la città senza il ponte, costringendo chi doveva raggiungere il porto a zig-zag infernali. Perché Genova è il porto del Nord Italia. E il porto con i container e l’Acquario, le navi da crociera e i mercantili, resta il motore dell’economia della città, il suo ancoraggio al mondo, il fattore che ne definisce l’identità.
L’altro paradosso è che il ponte è stato tirato su in pieno lockdown. Gli italiani hanno seguito con trepidazione i lavori, per immaginare forse una ripartenza. Il viadotto, progettato da Renzo Piano, è stato costruito in 15 mesi dal consorzio PerGenova (Webuild, ex Salini-Impregilo, Fincantieri e Rina). I lavori sono iniziati il 15 aprile 2019 con la posa del primo palo di basamento della pila 6, dopo la demolizione dei tronconi del Morandi rimasti in piedi. Sono state utilizzate 24 mila tonnellate di acciaio, equivalenti a tre Tour Eiffel, e 67 mila metri cubi di calcestruzzo, pari a un Empire State Building e mezzo. La lunghezza è di 1.067 metri e conta 19 campate. Gli operai hanno lavorato 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in turni paralleli sottoterra, in elevazione, in quota, dentro l’impalcato e sopra la soletta. «Tranne Natale e Capodanno, erano sempre lassù», dice don Gianni Grosso, il parroco di San Bartolomeo della Certosa, la parrocchia della Valpolcevera che anche quest'anno organizzerà la Messa di suffragio per le vittime del Morandi.

(I mazzi di fiori in ricordo delle vittime del Ponte)
Il “modello Genova” non è solo lo spirito di questi mesi, ma anche il sistema legislativo libero da controlli che ha permesso di fare in fretta. «In vita mia non ho mai provato un’emozione così forte e contrastante. Da un lato, la soddisfazione per un’opera fondamentale. Dall’altro, la grande tristezza pensando alle vittime», dice Tommaso Ferrari, uno degli autisti della ditta Germani Trasporti che ha effettuato le prove di carico per il collaudo. «Mi ha colpito la semplicità della struttura: niente corde o tiranti, è fluida e con una visibilità spettacolare».
Franco Ravera, portavoce dell’associazione “Quelli del Ponte Morandi”, che raggruppa gli ex sfollati, è soddisfatto a metà: «Il ponte», dice, «serve a Genova come il pane, ma non è una nuova opera, è una ricostruzione che dovrebbe essere listata a lutto in memoria delle vittime».
Il pericolo di un’inaugurazione in pompa magna è stato sventato. Ravera ricorda l’impatto devastante che il crollo ha avuto sulla Valpolcevera: «Molte attività hanno dovuto chiudere e non riapriranno più, la viabilità è stata ripristinata solo sei mesi fa. E noi, non dimentichiamolo, siamo “danni collaterali”, perché chi ha perso i propri cari non finirà mai di piangere». Ravera pensa già al dopo: «L’inaugurazione del ponte ha una visibilità mediatica enorme ma non è l’ultimo atto. Per noi è importante realizzare il parco sotto il viadotto per riqualificare un quartiere che altrimenti rischia di morire anche con i nuovo viadotto».

(Il parroco di San Bartolomeo della Certosa, don Gianni Grosso)
Genova, d’altra parte, ne ha passate troppe per poter gioire davvero. Devastata dal punto di vista idrogeologico e infrastrutturale, non aveva finito di piangere i morti per le alluvioni del 2010 e del 2011 che è crollato il ponte Morandi. Le lacrime, le polemiche, il rimpallo di responsabilità, il caos del traffico. Poi, nel bel mezzo della ricostruzione a tempi di record, è arrivata la pandemia che ha rimesso la città in ginocchio.
«Gioire? Siamo soddisfatti ma non c'è nulla da festeggiare», dice Antonella, titolare del panificio “Le dolcezze salate” a due passi da piazza De Ferrari, il salotto buono della città dove i turisti sono spariti e gli impiegati pure. «Ho cinque dipendenti e nessun aiuto concreto. Gli incassi si sono dimezzati, non mi va di indebitarmi con la banca per portare avanti l'attività, piuttosto, se non ce la faccio chiudo», racconta. Il ponte? «Utile, anche perché Bucci (sindaco e commissario straordinario per la ricostruzione, ndr) e Toti (presidente della Regione, ndr) hanno lavorato insieme compatti e questo è positivo».
Tra i carrugi del centro storico dove tutto è mescolato, i ricchi al piano alto e i poveri al mezzanino, gli spacciatori in via del Campo e i professionisti nella parallela, il nuovo ponte non scalda il cuore (quasi) a nessuno. Più che diffidente, la città è prudente: un pregio, forse, in un Paese credulone. Nico Toso, l’edicolante di piazza Marsala vede il bicchiere mezzo vuoto: «Sono stati veloci a costruirlo ma non se ne può più delle passerelle dei politici. Mi preoccupa il dopo: chi lo gestisce? Lo Stato? E come? Noi italiani facciamo sempre le cose a metà. E francamente non capisco quei genovesi che si sono opposti alla Gronda che sarebbe servita come il pane».
A settembre, Covid permettendo, si vota per le Regionali. Giovanni Toti, centrodestra, contro Ferruccio Sansa, il giornalista del Fatto Quotidiano che ha ricompattato Pd e Movimento 5 Stelle dopo i mal di pancia di Grillo. Nico non ha dubbi: «Vince Toti a mani basse, i miei clienti grillini, tra i quali c’è anche un ex candidato alle comunali, dicono che Sansa è a più destra di Toti. Se questa è l’alleanza…». Alla caffetteria “La Piazza” gestito da due sorelle, Giulia e Caterina, si beve il caffè e si prende tutto con filosofia: «Il ponte? Speriamo non crolli», dice con un riso amaro Giulia, «non c’è nessuno “modello Genova”, si sono sbrigati perché sapevano di avere gli occhi dell’Italia puntati addosso. Il nuovo viadotto nasce da decenni d’incuria che ha provocato una tragedia enorme, altro che festeggiare». Le due ragazze abitano a Voltri: «Scriva che l’altra sera per andare da Pra a Voltri ci ho messo un’ora quando ci vogliono due minuti, la verità è che siamo esausti e non ce la facciamo più».
A piazza Corvetto il tassista Mauro Voto aspetta da un’ora clienti che non arrivano: «Abito a San Martino, 15 chilometri in linea d’aria dal Morandi, vederlo crollare è stato terribile», racconta, «ora c’è chi dice che anche questo viadotto è fatto male, che bisogna ridurre il limite di velocità a 70 km orari. Non si sa di chi fidarsi. Mi spiace che delle responsabilità del crollo non se ne parli più da mesi». C’è un processo, ripreso a metà luglio dopo il lockdown, che vede 71 imputati, tra ex vertici di Autostrade per l’Italia (Aspi) e Spea e dirigenti del ministero delle Infrastrutture, oltre alle due società per responsabilità amministrativa. Le accuse sono, a vario titolo, di omicidio colposo plurimo, disastro colposo, attentato alla sicurezza dei trasporti e falso. Il tassista scuote la testa: «Non sapremo mai perché è caduto, forse c’è qualcosa che non ci vogliono dire». Ci mancava pure il complottismo.

(Giuseppe Rodinò, ex sfollato, indica il punto in cui c'era la sua casa, ora abbattuta. In questo luogo sorgerà la "Radura della Memoria" in ricordo delle 43 vittime del crollo del Morandi)