Dal nostro inviato
«È venuta l’ora di destarsi da quel fondamentalismo che inquina e corrode ogni credo». Papa Francesco prende la parola, dopo che tutti hanno pregato in silenzio. Il VII Congresso dei capi delle religioni mondiali e tradizinali dà un'immagine di dialogo e di unità. Voluto dal presidente del Kazakhstan fin dal 2003, assume, con la presenza del Pontefice, dei rabbini capo di isralele, l'ashkenazita Yisrael Meir Lau e il sefardita Yitzhak Yosef, con il grande imam di Al Azhar, Al Tayeb, ma a cnhe con l'incoraggiamento del pur assente Kirill, un’importanza storica. Parla a dei fratelli e a delle sorelle, Bergoglio. Sono un’ottantina quelli seduti al tavolo e oltre cento le delegazioni provenienti da 57 Paesi. Ricorda l'ateismo di Stato, negli anni in cui i sovietici avevano imposto in queste terre il disprezzo della religione. Ma poi spiega anche come, se non strumentalizzate esse siano indispensabili come parte della soluzione die problemi del mondo.
«Di fronte al mistero dell’infinito che ci sovrasta e ci attira», dice Francesco, «le religioni ci ricordano che siamo creature: non siamo onnipotenti, ma donne e uomini in cammino verso la medesima meta celeste». E spiega che «il senso della vita non può ridursi ai nostri interessi personali, ma si inscrive nella fratellanza che ci contraddistingue. Cresciamo solo con gli altri e grazie agli altri». In una terra percorsa da grandi carovane, che passavano attraverso l'antica via della seta, il Papa esorta ad «aprire una nuova via di incontro, incentrata sui rapporti umani: sul rispetto, sull’onestà del dialogo, sul valore imprescindibile di ciascuno, sulla collaborazione; una via fraterna per camminare insieme verso la pace». Cita Leopardi e il poeta kazako Abai per dire che «noi esseri umani non esistiamo tanto per soddisfare interessi terreni e per tessere relazioni di sola natura economica, quanto per camminare insieme, come viandanti con lo sguardo rivolto al Cielo». C'è bisogno, con le parole del poeta di mantenere «desta l’anima e limpida la mente».
«Il mondo», dice Francesco, «attende da noi l’esempio di anime deste e di menti limpide, attende religiosità autentica», capace di generare «una convivenza più armoniosa». Infatti, sottolinea, «la ricerca della trascendenza e il sacro valore della fraternità possono ispirare e illuminare le scelte da prendere nel contesto delle crisi geopolitiche, sociali, economiche, ecologiche ma, alla radice, spirituali che attraversano molte istituzioni odierne, anche le democrazie, mettendo a repentaglio la sicurezza e la concordia tra i popoli. Abbiamo dunque bisogno di religione per rispondere alla sete di pace del mondo e alla sete di infinito che abita il cuore di ogni uomo».
Per questo, condizione essenziale per uno sviluppo davvero umano e integrale è la libertà religiosa, «diritto fondamentale, primario e inalienabile, che occorre promuovere ovunque e che non può limitarsi alla sola libertà di culto. È infatti diritto di ogni persona rendere pubblica testimonianza al proprio credo: proporlo senza mai imporlo».
Loda, il Pontefice, «questo Congresso di rilevanza mondiale» che da un ventennio il Kazakhstan «mirabilmente promuove». Questa edizione aggiunge, «ci porta a riflettere sul nostro ruolo nello sviluppo spirituale e sociale dell’umanità durante il periodo post-pandemico». Secondo Francesco la pandemia è la prima di quattro sfide globali che le religioni possono affrontare insieme: «Il Covid-19 ci ha messo tutti sullo stesso piano. Ci ha fatto capire che, come diceva Abai, "non siamo demiurghi, ma mortali": tutti ci siamo sentiti fragili, tutti bisognosi di assistenza; nessuno pienamente autonomo, nessuno completamente autosufficiente. Ora, però, non possiamo dilapidare il bisogno di solidarietà che abbiamo avvertito andando avanti come se nulla fosse successo, senza lasciarci interpellare dall’esigenza di affrontare insieme le urgenze che riguardano tutti». Alle religioni spetta aiutare tutti a non dimenticare la vulnerabilità; a non farsi imbrigliare nei lacci del profitto e del guadagno, quasi fossero i rimedi a tutti i mali; a non assecondare uno sviluppo insostenibile che non rispetti i limiti imposti dal creato; a non lasciarsi anestetizzare dal consumismo che stordisce, perché i beni sono per l’uomo e non l’uomo per i beni».
Occorre diventare «artigiani di comunione, testimoni di una collaborazione che superi gli steccati delle proprie appartenenze comunitarie, etniche, nazionali e religiose» partendo dall'ascolto dei più deboli «dal farsi eco di una solidarietà globale che in primo luogo riguardi loro, i poveri, i bisognosi che più hanno sofferto la pandemia, la quale ha fatto prepotentemente emergere l’iniquità delle disuguaglianze planetarie», a cominciare dall'accesso ai vaccini. Non solo, il Papa ricorda che «è proprio l’indigenza a permettere il dilagare di epidemie e di altri grandi mali che prosperano sui terreni del disagio e delle disuguaglianze. Il maggior fattore di rischio dei nostri tempi permane la povertà». Ed è dalla povertà che nascono anche liti, odi, terrorismo.
Da qui la seconda sfida: quella della pace. «Vediamo i nostri giorni ancora segnati dalla piaga della guerra, da un clima di esasperati confronti, dall’incapacità di fare un passo indietro e tendere la mano all’altro. Occorre un sussulto». Non solo, occorre testimonianza: «Come possiamo pensare che gli uomini del nostro tempo, molti dei quali vivono come se Dio non esistesse, siano motivati a impegnarsi in un dialogo rispettoso e responsabile se le grandi religioni, che costituiscono l’anima di tante culture e tradizioni, non si impegnano attivamente per la pace?». Bisogna unire gli sforzi «affinché mai più l’Onnipotente diventi ostaggio della volontà di potenza umana». Bisogna purificarsi «dalla presunzione di sentirci giusti e di non avere nulla da imparare dagli altri; liberiamoci da quelle concezioni riduttive e rovinose che offendono il nome di Dio attraverso rigidità, estremismi e fondamentalismi, e lo profanano mediante l’odio, il fanatismo e il terrorismo, sfigurando anche l’immagine dell’uomo».
E ancora, esorta il Pontefice, «non permettiamo che il sacro venga strumentalizzato da ciò che è profano. Il sacro non sia puntello del potere e il potere non si puntelli di sacralità! Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra. Impegniamoci dunque, ancora di più, a promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, ma con gli unici mezzi benedetti dal Cielo e degni dell’uomo: l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni. Esse incarnano la speranza che la pace non sia il fragile risultato di affannosi negoziati, ma il frutto di un impegno educativo costante, che promuova i loro sogni di sviluppo e di futuro».
«Investiamo, vi prego, in questo: non negli armamenti, ma nell’istruzione!», è il grido di Bergoglio.
La terza sfida è quella dell'accoglienza fraterna in un mondo in cui si registra «la fatica di accettare l’essere umano. Ogni giorno nascituri e bambini, migranti e anziani vengono scartati. Tanti fratelli e sorelle muoiono sacrificati sull’altare del profitto, avvolti dall’incenso sacrilego dell’indifferenza. Eppure ogni essere umano è sacro». è in corso un grande esodo causato da «guerre, povertà, cambiamenti climatici, dalla ricerca di un benessere che il mondo globalizzato permette di conoscere, ma a cui è spesso difficile accedere». E se viene «istintivo difendere le proprie sicurezze acquisite e chiudere le porte per paura» perché «è più facile sospettare dello straniero, accusarlo e condannarlo piuttosto che conoscerlo e capirlo», è «nostro dovere ricordare che il Creatore» ci chiede di avere «uno sguardo simile al suo, uno sguardo che riconosca il volto del fratello».
Ricorda la lingua kazaka che traduce la parola amare con «avere uno sguardo buono su qualcuno» e il proverbio locale che recita: «Se incontri qualcuno, cerca di renderlo felice, forse è l’ultima volta che lo vedi». Dobbiamo imparare ad avere compassione e a vergognarci «sì, a provare quella sana vergogna che nasce dalla pietà per l’uomo che soffre, dalla commozione e dallo stupore per la sua condizione, per il suo destino di cui sentirsi partecipi». Solo se «avvertiremo come nostre le fatiche dell’umanità saremo veramente umani».
Infine la custodia della casa comune, «Di fronte agli stravolgimenti climatici occorre proteggerla, perché non sia assoggettata alle logiche del guadagno, ma preservata per le generazioni future, a lode del Creatore», conclude il Papa. Non è una sfida ultima per importanza. Anzi, spiega il Pontefice, si ricollega alla prima. «Virus come il Covid-19, che, pur microscopici, sono in grado di sgretolare le grandi ambizioni del progresso, spesso sono legati a un equilibrio deteriorato, in gran parte per causa nostra, con la natura che ci circonda. Pensiamo ad esempio alla deforestazione, al commercio illegale di animali vivi, agli allevamenti intensivi... È la mentalità dello sfruttamento a devastare la casa che abitiamo. Non solo: essa porta a eclissare quella visione rispettosa e religiosa del mondo voluta dal Creatore. Perciò è imprescindibile favorire e promuovere la custodia della vita in ogni sua forma».
Le religioni hanno un ruolo importante purché si coltivi un dialogo sincero «Non cerchiamo finti sincretismi concilianti», conclude, «ma custodiamo le nostre identità aperti al coraggio dell’alterità, all’incontro fraterno. Solo così, nei tempi bui che viviamo, potremo irradiare la luce del nostro Creatore».